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ARGENTINA – Dieci anni dopo, ogni dieci anni.

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– Articolo pubblicato sul Mucchio di Ottobre – 

**Sono tornate le pentole nelle piazze, e con esse l’incubo di un nuovo default. Nel paese del tango ci si ostina a ballare sull’orlo del precipizio, da sempre. E’ una danza magnetica, destinata – dice la leggenda – a concludersi rovinosamente in maniera ciclica. Dopo ogni catastrofe, però, c’è sempre il riscatto: Evita, la mano de Dios, il modello di sviluppo alternativo, la musica. 

Quale sarà il prossimo? Viaggio blues in un paese sempre a rischio d’implosione, sempre troppo pieno di vita. **

Me gustan las chicas, me gustan las drogas/ me gusta mi guitarra,
James Brown y Madonna […] pero lo que más me gusta/son las cosas que no se tocan…

… gridava la voce rauca del Pity’ Álvarez, leader della storica band rockera argentina Intoxicados, una vita avanti e indietro dal carcere e dagli ospedali psichiatrici, tra risse, pistole e ossessionanti dipendenze dalla pasta base di cocaina (che a Buenos Aires ancora brucia il cervello dei più miserabili nelle baraccopoli).

L’Argentina del post-crisi, dei dieci anni dopo — che noi giornalisti siamo sempre ossessionati con gli anniversari – è in realtà sempre la stessa, quella che gli anni li vive pericolosamente, al limite, sempre sull’orlo del baratro. Proprio come ‘el Pity’ Alvarez.
Quella che, oggi come allora, scende in piazza con la paura di finire con le ginocchia per terra. Proprio come allora, proprio come dieci anni fa.
Un paese in cui le cose funzionano e non funzionano e tutto è caos, magnetico, splendido, intangibile. Il fascino delle cose che non si toccano, appunto.

L’Argentina dei dieci-anni-dopo è quella che si è ripresa ma vive di contraddizioni. Quella che cresce più della sua stessa inflazione e sfida il mondo a trovare un modello alternativo – un modello nuovo, di cui lei stessa è la prima a dubitare.

Quella che ha cacciato il Fondo Monetario Internazionale (FMI) perché dello spread non vuole sentire parlare: che la crisi, quella vera, si faccia avanti sulle bancarelle del supermercato, dove a volte i prodotti non arrivano per via di quelle barriere protezionistiche alle frontiere poste per favorire una produzione interna che ancora non è abbastanza. Ma fa niente.

L’Argentina dei turisti yankee che vengono a fare la bella vita — che tanto una bistecca costa pochi spiccioli — è la stessa delle case in lamiera del film Elefante Blanco, retorico panegirico sulle villas della periferia di Buenos Aires diretto dal regista più in voga, Pablo Trapero.

Quelle case in lamiera che sfidano dal basso i grattacieli del quartiere chic di Palermo, giù dove corre la ferrovia smantellata e impazzano i ritmi tribali della la cumbia villera, fuori dalle mappe cittadine ufficiali.

La cumbia dei Wachiturros, ballerini nelle discoteche del conurbano bonaerense diventati celebri per un video su YouTube che ha infranto il muro delle 19 milioni di visite.

Mentre spopolavano America Latina, dove il genere musicale importato dalla Colombia impazza senza distinzioni, uno dei suoi membri, alias DJ Memo, era accusato di aver abusato sessualmente di una tredicenne.


Più piccola di due anni (appena undici) era invece la bambina della provincia di Entre Rios obbligata nello scorso gennaio da un giudice a portare avanti una gravidanza dopo essere stata abusata da un parente diciassettenne, nonostante gli ovvi rischi per la sua salute.

Nell’Argentina progressista dei Kirchner le coppie gay possono sposarsi, ma l’aborto resta ancora un problema irrisolto, come in tutto il resto del continente.

Da quelle case in lamiera dei quartieri più poveri escono storie di disperazione come questa… e escono parimenti, ogni mattina, i raccoglitori di spazzatura ambulanti della capitale, i cartoneros. Uomini col carretto che brucano nei cassonetti e differenziano a mano i rifiuti, per evitare che la città collassi sotto il peso della sua stessa immondizia.

Il cartonero è la prima cosa ‘rara’ per gli standard nostrani che ci si trova davanti appena messi piede a Buenos Aires.

Detriti umani della bancarotta di dieci anni fa, costretti a inurbarsi con l’aggravarsi della crisi perché ciò che si raccoglieva nelle periferie semplicemente non bastava per sopravvivere. Totem ambulanti del default che ancora si aggirano per le grandi avenidas della città.

Se la città si libera del FMI, le sconfinate campagne nel frattempo sperano che la Cina non smetta mai di importare la soia argentina, il bene d’esportazione più prezioso: benedizione per le casse dello stato e maledizione per i terreni su cui cresce, resi inariditi e morenti.

Proprio la soia è metafora di un paese che è da sempre abituato a pensare a corto respiro, in cui “per ora va bene cosí, poi vediamo,” aspettando che le contraddizioni esplodano leggendariamente ogni dieci anni. Tanto le persone hanno ormai imparato a fare buon viso a cattivo gioco, scrollare le spalle e ripartire da zero.

(continua su Mucchio Selvaggio e prossimamente anche qui…)

Finalmente qualcuno che riporta le cose nella loro giusta ottica #sallusti #ingattabuia

E’ giunta l’ora di lanciare un segnale forte contro il giornalismo spazzatura. L’analisi limpida e onesta di Michael Braun per Internazionale. 

Sono lieto di postarlo a ‘mo di risarcimento nei confronti di tanti buoni giornalisti costretti a lavorare 12 ore al giorno per un tozzo di pane e sale; costretti inumanamente a sperare che quello davanti, in redazione, si faccia male o vada in maternitá cosí da potergli soffiare quell’unico, agognato posto da praticante; costretti a emigrare per trovare lavoro; costretti a ingoiare le peggiori umiliazioni e vessazioni per aspirare a entrare nel loop infinito della casta; costretti, infine, a ingoiare anche questa: che un giornalista incompetente, fazioso, offensivo e malizioso ricopra la carica di direttore di giornale – e intanto si fa la valigia sconsolati e si parte verso una terra straniera, che l’Italia, oggi no, un giorno chissá, non é un paese giusto verso chi é onesto e cerca solo di fare il proprio mestiere.

L’Italia ha un nuovo martire:  Alessandro Sallusti. Condannato a 14 mesi di carcere per diffamazione, oggi si presenta – ed è presentato dalla quasi totalità dei suoi colleghi – come la vittima di una legge aberrante che (così si afferma) punisce un “reato di opinione” e non ha uguali nelle altre democrazie.

Ma le cose stanno davvero così? Uno sguardo al codice penale tedesco ci dice subito che la diffamazione è reato punibile con due anni di carcere, e se avviene a mezzo stampa la pena sale addirittura fino a cinque anni. Insomma: chi, utilizzando le pagine di un giornale, denigra qualcuno ricorrendo ad affermazioni palesemente false rischia la galera anche in Germania.

Ciò detto potrei aggiungere che anche a me questa condanna, senza condizionale, sembra esagerata. Ma questo punto è già sottolineato da tanti, praticamente da tutti, giornalisti e politici. Un altro punto rischia invece di scomparire: cioè che, in veste di direttore, Sallusti si è reso complice di un reato grave, e che prima di assurgere al ruolo di martire ha vestito i panni dell’autore di un atto illecito.

Vogliamo ricordare che cosa scriveva cinque anni fa un certo Dreyfus (la vocazione al martirio, a quanto pare, era già tutta presente) sul giudice Giuseppe Cocilovo? Quel giudice aveva autorizzato una ragazzina tredicenne ad abortire, dietro richiesta della ragazza e di sua madre. Il quotidiano Libero commentava così: “Un magistrato ha applicato il diritto – il diritto! – decretando: aborto coattivo. (…) Qui ora esagero, ma prima domani di pentirmi, lo scrivo: se ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo, il giudice. Quattro adulti, contro due bambini. Uno assassinato, l’altro (in realtà) costretto alla follia”.

Dopo la sentenza contro Sallusti ora Il Giornale (dove il condannato nel frattempo è trasmigrato come direttore) decreta: “L’articolo sotto accusa: duro, ma è un’opinione”. Davvero? Potremmo già disquisire sull’aggettivo “duro”. Invocare la pena di morte per quattro persone che non si sono resi colpevoli neanche della più minima illegalità vi sembra duro? A me sembra una violenza inaudita. Ma non è questo il punto.

Continua a leggere sul sito di Internazionale

Qui sotto, la consueta amaca di Serra. Che tra una cosa e l’altra dice sensatezze. 

The David Brent dance

Quando vado a ballare, alzo le mani sopra la pericolosa linea delle spalle (i  fan di Santa Maradona sanno che è una cosa che non si fa. Mai) e faccio cose del genere.

Lo scorso fine settimana – cosa sacra, ora che sto assimilando la routine del lavoratore – non sono andato a ballare. No. Non ho sorriso, e un corvo mi beccava l’occhio.

Sono stato a casa ammalato, sul divano, sognando di poter avere la mobilità necessaria per muovere anche un solo frammento del mio corpo a quel modo.

Tango, stop motion e peti fiammanti

Visto che tengo un blog su Linkiesta dal nome Lezioni di Tango, e visto che quando ho la macchina fotografica mi diletto di fotografia, peti, annessi e connessi, mi pareva bello iniziare la domenica mattina con questo video in stop motion in cui tango, fotografia e  peti fiammanti si fondono, splendidamente.

DJ Shadow – listen (feat. Terry Reid) from Franck Trebillac on Vimeo.

Tratto da DuckRabbit, Look and Learn – this is a magic use of photography.

 

Quando ti regalano un orologio, ti regalano un piccolo inferno fiorito

Pensa a questo: quando ti regalano un orologio, ti regalano un piccolo inferno fiorito, una catena di rose, una cella d’aria. Non ti danno soltanto l’orologio, tanti, tanti auguri e speriamo che duri perchè è di buona marca, svizzero con áncora di rubini;  non ti regalano soltanto questo minuscolo scalpellino che ti legherai al polso e che andrà a spasso con te. Ti regalano – non lo sanno, il terribile è che non lo sanno -, ti regalano un altro frammento fragile e precario di te stesso, qualcosa che è tuo ma che non è il tuo corpo, che devi legare al tuo corpo con il suo cinghino simile a un braccetto disperatamente aggrappato al tuo polso. Ti regalano la necessità di continuare a caricarlo tutti i giorni, l’obbligo di caricarlo se vuoi che continui a essere un orologio; ti regalano l’ossessione di controllare l’ora esatta nelle vetrine dei gioiellieri, alla radio, al telefono. Ti regalano la paura di perderlo, che te lo rubino, che ti cada per terra e che si rompa. Ti regalano la sua marca, e la certezza che è una marca migliore delle altre, ti regalano la tendenza a fare il confronto tra il tuo orologio e gli altri orologi. Non ti regalano un orologio, sei tu che sei regalato, sei il regalo per il compleanno del tuo orologio.

Brano: Preambolo alle istruzioni per caricare l’orologio, tratto da Storie di Cronopios e di Famas di Julio Cortázar.

Sante parole dall’Amaca

Il codazzo di fotografi, cameramen e cronisti che fa da scorta a Nicole Minetti costituisce, in sé, una delle prove più schiaccianti della mancanza di dignità e di libertà del sistema mediatico così come ci illudiamo di gestirlo e così come lo stiamo subendo, per metà impotenti e per metà complici. Non c’è persona di buon senso, di qualunque orientamento ideologico e livello culturale, che non ritenga futile e dannoso dedicare tempo, tecnologia, parole e pensieri a una figuretta minore della nostra scena pubblica che è stata, a suo tempo, co-protagonista di uno scandalo di regime e oggi è protagonista di niente. Con la sola e spiegabile eccezione della stessa signorina Minetti, nessuno ha interesse a tenere acceso anche un solo riflettore su di lei. Se questo avviene è solo perché il potere (anzi: il dovere) di scegliere che cosa mostrare, di che cosa parlare è progressivamente venuto meno fino a scomparire dentro l’alibi – davvero ignobile – che bisogna “dare alla gente quello che vuole”: ma la gente legge e clicca ciò che le viene offerto, non altro. Non è la gente che fabbrica le notizie, sono i media. Anche il più scalcinato dei bancarellai ha facoltà di decidere quali merci esporre. I media sono gli unici commercianti che danno sempre al cliente la colpa della loro merce avariata.

Da La Repubblica del 07/09/2012, l’Amaca, Michele Serra.

Tratto da qui. E da Facebook. Grazie.

Colombia, Medellin: dall’incubo narco al sogno dello sviluppo

Città in fermento, perla turistica e centro degli affari, la città che debbe la sua fama e il suo martirio al narcotrafficante Pablo Escobar, oggi è irriconoscibile. La rivoluzione di 20 anni, raccontata dal sindaco che visse in prima linea la guerra con il crimine organizzato

 
 
Quasi vent’anni fa – era un caldo dicembre del 1993 – moriva il più famoso narcotrafficante del mondo, Pablo Escobar. Moriva fuggitivo, leggenda, sui tetti della sua città, Medellín, allora considerata la più pericolosa del mondo, la capitale della droga. Oggi, quando chiedo al giovane Julian — 25 anni e un lavoro come consulente per la cooperazione internazionale al municipio di Medellin — come si chiama il nuovo capo del cartello della città, non sa rispondermi. Alza le spalle, dubbioso. «Penso non ci sia più una banda grande come una volta. Sono tante e piccole, ora. Ce n’era una chiamata Los Urabeños però hanno appena arrestato i due capi. Di più non so».

Le cose sono cambiate. Come recita un noto spot turistico colombiano, a Medellín l’unico rischio è quello di voler restare per sempre. Immersi tra le sue verdi montagne, in un’eterna primavera tenacemente ritrovata. Oggi del sangue di Pablo Escobar sui tetti di Medellin rimane solo un celebre dipinto di Botero, esposto all’omonimo museo cittadino. E, ovviamente, l’ennesima, popolarissima serie televisiva. Nessun museo, nessun tour turistico, nessun monumento – e ci mancherebbe altro. Solo i racconti della gente, tra incanto e disincanto.

Abbiamo chiesto a Omar Flórez Vélez, l’ultimo sindaco di Medellin dell’era Escobar (1990-1992, quando ancora gli alcaldes della città rimanevano in carica solo per un paio d’anni, e scorta e attentati facevano tutti parte del pacchetto), come il fiore-Medellin, quello che il narcotraffico aveva rischiato di danneggiare per sempre, sia riuscito a rinascere dalle sue stesse ceneri.

«Lo scenario era estremamente incerto, la popolazione era terrorizzata dall’azione delle autobomba come quelle che oggi si vedono in Siria o Afghanistan. In quel momento, era la città più pericolosa del mondo. I media diffondevano quest’immagine a livello internazionale e il cartello aveva un atteggiamento di sfida costante verso le istituzioni», racconta l’ex sindaco, eletto negli anni successivi senatore della Repubblica e parlamentare.

«Il problema non era Pablo. Morto lui, appaiono altri Escobar, nonostante tutta la politica repressiva del mondo. Nella polizia è stato messo in atto un meccanismo importante di pagamento e ricompensa, nonchè di epurazione della forza pubblica corrotta. Parallelamente, sono stati avviati programmi di tipo sociale, nell’idea che i problemi sociali richiedono risposte sociali, non di polizia», prosegue Flórez Vélez, seduto al tavolo della sua villetta del Poblado una calda notte d’estate – che poi non vuol dire nulla, visto che a Medellin è estate tutto l’anno.

… continua a leggere sul sito di PangeaNews, su cui é stata pubblicata questa intervista in esclusiva.