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Essere start-up in Italia

Molto bella questa riflessione comune sul Tumblr di Luca Alagna.

Qualche suggerimento sulle persone giuste da assumere, capaci di essere creativi – con stile e pazienza – nonostante l’ambiente di lavoro totalmente volatile, agile, fin troppo, quasi al punto di essere vago, incomprensibile, intangibile. Ma sempre e comunque affascinante perchè in moto costante.

Product thinking: Typically media startups have been stuck in “post thinking,” as in a blog post, a story post, etc. In a multi-platform environment, product-led thinking that continually tweaks to keep the brand fresh in digital becomes the driving force. Iterate, test and build — a thinking in mainstream consumer startups, has to come to media startups as well. Hire people who get it…

Curation thinking: This is another critical hiring and company culture parameter. No media startup can survive doing just original content, it has to be a mix, of original, of curated or aggregated, of licensed if that is an option. It means hiring people who have the ability to mix content types, and not be moral about it. You’ll be surprised at how many journalists look down upon curation. In a small team, curation thinking also means learning to do a lot more with a lot less…

Agile development, a methodology that came out of the software world, is increasingly being implemented across other parts of companies as well, especially as a buzzword by marketers. For a media startup, agile would translate into building quick, fast and dirty, with few resources, whether it is edit, business, sales, and of course tech development. That means a cross-functional product manager who is almost a junior COO, working with founders to keep everything running and launching on time, amidst the requisite amount of chaos.

Le foto da New York

Ho completato l’ebook su Real-Time Journalism qui. Proprio come i veri scrittori bohémienne.
Salvo che è stata una coincidenza, ed ero in ritardissimo con la scadenza, e mi sono bruciato un po’ di vacanza. Ma ne é valsa la pena.

C’è un bottone sulla home del Guardian per evitare il #RoyalBaby

Il sito inglese Guardian.co.uk  offre oggi ai propri lettori ‘Repubblicani’ o ‘Realisti’ la possibilità di scegliere se abbuffarsi bulimicamente di notizie sul bebè reale, o fuggirle del tutto, come la peste. C’è un bottone sulla homepage:

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che permette agli utenti di eliminare il contenuto sgradito, in caso di royal fatigue.

Come notate di sopra, la HP cambia completamente, e la notizia del nuovo congresso laburista convocato da Ed Miliband ottiene finalmente il posto al sole meritato (?).

Sembra poco, ma è una cosa fantastica. Non trovate?

‘but until then, we are gonna speculate about this royal baby with no facts’

Live chat esclusiva sull’etica del #realtimejourno

Oggi, in diretta sul liveblog: una discussione fra giornalisti e accademici sui dilemmi etici per il povero ‘deskista del web’

Martedì 16 luglio dalle 18 alle 19 ora italiana, il liveblog che ho lanciato ieri in occasione dell’uscita del mio primo ebook ospiterà una interessante live chat su alcune fondamentali questioni di natura etica per il giornalista digitale alle prese con narrazioni multimediali e social networks.

Quale il livello di controllo da esercitare sugli account Twitter dei propri giornalisti da parte di redattori e capiredattori? Che fare quando viene pubblicato un post contenente informazioni errate o approssimative? Come essere certi dell’affidabilità del materiale trovato sui social media, e come coniugare velocità di pubblicazione e accuratezza?
A parlarne, i giornalisti di ScribbleLive, start-up canadese per la quale lavoro (come puntualizzo spesso nell’ebook) – e tre ospiti d’eccezione.

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Lauren Johnston, digital editorial director per il tabloid newyorkese, New York Daily News, e professore associato di online journalism alla St. John’s University. 

Mary McGuire, professore di online journalism alla Carleton University, specializzato nell’uso di Twitter per la copertura di processi di rilievo dalle aule di tribunale

Craig Silverman, giornalista e responsabile del contenuto della start-up Spundge, fondatore e editor di Regret the Error e collaboratore del Poynter Institute.

Sarà in inglese, e avrete la possibilità di inviare direttamente le vostre domande a Craig Silverman, Mary McGuire e Laura Johnston commentando sul liveblog.

Spero vi divertiate!

Il liveblogging dell’ebook sul liveblogging

Come sintetizza bene questo tweet:


apro oggi una sezione del sito
dedicata all’affascinante (sì, proprio così) mondo del giornalismo real-time. La apro (quasi) in coincidenza con l’uscita in Italia del primo saggio sul ‘bello della diretta’ da me scritto e pubblicato con Inform-ant, casa editrice specializzata in long-form journalism e saggi che danno conto del dibattito sul futuro della professione.

Anche di questo parlo nell’ebook, a partire da un concetto chiave: quello di coinvolgimento (engagement) del lettore.

Possiamo dire, giusto per intenderci, che si parla di liveblogging, ma sarebbe riduttivo. Si parla di affascinare e fidelizzare il lettore con narrazioni multimediali in tempo reale. Non si parla di fare più traffico, ma della qualità del tempo speso in pagina. Si parla di dialogo e interazione. Si parla di curatela della notizia e dell’uso sapiente dei social networks.  

Si parla del perché, ma soprattutto del come.

Un ebook molto pratico, per tutti coloro – giornalisti, appassionati e curiosi – che auspicano la rivoluzione culturale di un mestiere bellissimo, ma anche spesso grottesco e contraddittorio, come quel Barone di Münchhausen, “che si mise in testa di strapparsi fuori dalla palude tirandosi per i capelli.”

La sete per la notizia non manca di certo. Le storie sono dovunque. Fluide. In costante mutamento. “Un po’ come l’acqua. Il valore sta nel sapere come imbottigliarla.”

Manca poco, solo qualche giorno. Nell’attesa, gustatevi il liveblog: un punto di ritrovo e dialogo, un luogo dove trovare spunti e idee, in costante aggiornamento.

Trovate il link alla sezione LIVE! anche sulla barra di destra. 
 

Sullo sfogo di Francesca Borri

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Per chi volesse farsi un’idea del dibattito in corso sull’articolo da me pubblicato qualche giorno fa, rimando a questo interessantissimo pezzo sul blog collettivo Valigia Blu di Arianna Ciccone. Allora, furono le mie considerazioni a caldo.
Al di là di ogni sensazionalismo – di cui sono caduto vittima pure io.

Quel che resta, oltre l’opportunità di rischiare la vita per pochi spiccioli,  oltre i pezzi di cervello in grembo e le canzoni dei Radiohead, è un mercato dei media che basa le sue tariffe non sulla qualità del contenuto offerto, ma su altri parametri che essa trascendono.

Ignorando tutto questo parlarsi addosso (“giornalisti plaudenti con il culo al caldo“, ne definisce alcuni Mantellini), restano i miei amici sparsi in Sud America e chissà dove, costretti al doppio lavoro perchè la qualità degli articoli proposti non è mai abbastanza per sopravvivere degnamente.

E allora cito Valentina Avon sul blog di Mantellini:

“Ma se una vittima denuncia un reato, che si fa, si passa il tempo a parlar di lei? O magari si fa anche qualche verifica sul reato? Ok, paragone azzardato e irriverente, ma è per rendere l’idea.

Al di là di motivazioni e argomenti, sicuramente discutibili, della freelance Borri, che gli editori, anche e soprattutto di rango, paghino un piatto di ceci resta un fatto. Che tu sia a Aleppo o a Trebaseleghe conta poco, come conta poco molto altro (quanto hai speso per fare il pezzo interessa a nessuno). Non è un reato, ma neanche una cosa bella.

Quando il discorso si sposta su questa china, parte il ritornello del libero mercato. E va ben. Ma libero mercato non vuol dire che tu paghi dei Cartier come fossero Swatch. Vuol dire che in giro ci saranno solo Swatch.

L’editore paga poco a prescindere dalla qualità del pezzo (a meno che di peso non sia la firma, in genere storica: trovatemi un freelance di rango che non sia stato anche, prima, un redattore di lungo corso. Del resto il mestiere si impara anche così, e questo apre la porta a un’altra valangata di questioni, ma per ora andiamo oltre). E questo, fra l’altro, causa non pochi problemi ai capiservizio, che non possono incentivare chi vorrebbero (e tu freelance che stai parlando col collega delle tue miserie finisci col sorbirti le sue, di lagne). Il potere contrattuale del freelance è pari a zero: immaginatevi un singolo, forte solo del proprio lavoro, che va a trattare con Marchionne (per restare alla Stampa).

A questo punto va spiegato anche, ai profani del desk, che non è che non ti pubblicano i pezzi in prima prima pagina (la questione non è: non mi fanno lavorare), è che quando lo fanno ti pagano quanto non basta neanche a coprirti le spese, e pure le tasse. Neanche uno Swatch, ti ci compri. La distanza fra la retribuzione di un assunto e di un freelance è siderale. E sorvoliamo su quelli che addirittura ti fregano le notizie per passarle a un loro redattore.

E qui arriviamo all’ultima fase. Quella in cui tu ti compri un giornale. Pagando. Per leggere in prima pagina un lavoro che lo stesso editore crede che non valga abbastanza da essere retribuito secondo quanto è costato in termini di lavoro e spese”

Continua a leggere qui. 

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Aggiornamento: grazie a Barbara Schiavulli e al suo intervento per ValigiaBlu. Non avrebbe potuto essere più chiara di così.

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Rischiare la vita per una pacca sulla spalla – e spesso neanche quella.

Leggo questo pezzo segnalatomi da @gianlucamezzo e mi commuovo.
Mi commuovo per Francesca Borri, corrispondente di guerra, freelance. Mi commuovo per lei, e per tutti i paria di una professione ingrata, che si prendono le pallottole sulle ginocchia al fronte per sentirsi dire “va bene, lo pubblico, ma non a nome tuo. A nome del mio corrispondente con contratto regolare.”

Che, fra le righe, equivale a un bel: “hai rischiato la vita per $70, ma da direttore di un sito d’informazione, non sono capace di attribuire a questo tuo sacrificio un valore maggiore di una galleria fotografica della Marcuzzi in topless – soprattutto agli occhi del mio pubblico.”

 “La mia giovinezza, per quel che vale, è svanita quando dei pezzi di cervello sono schizzati su di me in Bosnia. Avevo 23 anni.”

“La crisi oggi è una crisi dei media, non del pubblico. Il pubblico è sempre lì, al contrario di quanto molti caporedattori credano: sono lettori intelligenti che chiedono semplicità senza semplificazione. Vogliono capire, non sapere semplicemente sapere. Ogni volta che pubblico un racconto di prima mano sulla guerra, ricevo dozzine di email da gente che mi dice “Okay, bel pezzo, bella descrizione, ma voglio capire cosa succede in Siria.” E quanto sarei felice di rispondere che non posso semplicemente mandare un pezzo di analisi, perchè gli editors lo casserebbero, dicendomi: ‘Chi pensi di essere, ragazzina?’ nonostante abbia tre lauree, abbia scritto due libri, e trascorso 10 anni in varie zone di guerra, prima come responsabile nel settore dei diritti umani, quindi ora come giornalista.”  

Freelancers are second-class journalists—even if there are only freelancers here, in Syria, because this is a dirty war, a war of the last century; it’s trench warfare between rebels and loyalists who are so close that they scream at each other while they shoot each other. The first time on the frontline, you can’t believe it, with these bayonets you have seen only in history books. Today’s wars are drone wars, but here they fight meter by meter, street by street, and it’s fucking scary. Yet the editors back in Italy treat you like a kid; you get a front-page photo, and they say you were just lucky, in the right place at the right time. You get an exclusive story, like the one I wrote last September on Aleppo’s old city, a UNESCO World Heritage site, burning as the rebels and Syrian army battled for control. I was the first foreign reporter to enter, and the editors say: “How can I justify that my staff writer wasn’t able to enter and you were?” I got this email from an editor about that story: “I’ll buy it, but I will publish it under my staff writer’s name.”

 

A lezione di assunzione (e, coincidentalmente, rinnovamento).

“I don’t care how strong someone’s writing, reporting, editing or photography skills are, I’m not going to waste a valuable newsroom opening on a journalist who is refusing to meet the challenges of the digital age. I’ll hire a pretty good reporter, editor or photojournalist who’s learning digital tools over an excellent reporter, editor or photojournalist who’s pretending it’s still 1990.”

Steve Buttry