Come il Risiko mi ha salvato la vita (-6)
Domenica pomeriggio, mentre andavo per i trent’anni, mi sono messo una camicia, una giacca elegante ed un papillon dai colori confetto, rosso e blu. Mi sono aggiustato le maniche, e mi sono diretto a casa del mio migliore amico per un importante Risiko di gala.
Lì, ad aspettarmi, c’erano altri tre pinguini vestiti di tutto punto, con tanto di pochette di pizzo, farfallino, cravatta rossa e spillona sovietica. Per circa tre ore, siamo tornati a vivere in un un mondo fatto di carri armati e territori da conquistare al valente lancio di dadi. Abbiamo tracciato una linea: al di qua da essa stavamo noi, nel nostro orgoglio gessato; al di là da essa il resto del mondo.
In questo modo, vestiti di tutto punto, abbiamo reso omaggio alle nostre amicizie ma soprattutto ad un gioco che ha contribuito a salvarci la vita in tutti questi anni. Abbiamo rivendicato con orgoglio il nostro passato nerd, e ribadito che quello era il nostro presente e sarebbe sempre stato il nostro futuro.
Per anni, in quel periodo miliare per la formazione umana chiamato adolescenza, dadi di varie forme e colori sono stati le nostre iniezioni di endorfina quotidiane. Che andassimo alla conquista della Kamchatka, sconfiggessimo dei coboldi asserragliati in una caverna o simulassimo epiche battaglie con delle pistole giocattolo, abbiamo vissuto “in un mondo fittizio che esisteva solo nella immaginazione condivisa di tutti coloro che prendevano parte al gioco”. Un mondo irreale che ci ha dato gli strumenti per sopravvivere in quello tangibile.
Il titolo e il virgolettato di cui sopra ammiccano alle parole di Jon Michaud, autore di un articolo uscito sul New Yorker il mese scorso per il quarantennale di Dungeons and Dragons, pietra angolare di tutti i giochi di ruolo al cui altare abbiamo anche noi sacrificato, ovviamente, innumerevoli ore della nostra adolescenza.
Per qualche splendido anno ci siamo conservati puri, in totale controllo delle nostre sinapsi: di quei tempi, ci stendevamo sul ballatoio del nostro palazzo e passavamo ore ed ore a costruire mondi sconosciuti per i nostri Lego o incredibili campi di battaglia per gli omini Playmobil. E’ stato un periodo idillico durato fino almeno ai vent’anni, quando ancora tornavo a casa dall’università e mi facevo rapire da una partita di Trivial Pursuit o da una sfida a Monopoli all’ultima ipoteca.
Ho avuto il mio primo cellulare a diciassette anni, e solo perchè i miei genitori insistevano affinchè fossi rintracciabile mentre, con il motorino, mi facevo insultare ogni domenica nei campi di pallone di provincia come arbitro di calcio. Erano gli anni in cui connettersi ad internet era un piccolo, rumoroso evento giornaliero, e le enciclopedie esistevano in CD-ROM o addirittura in formato cartaceo.
Oggi, mentre giro con due cellulari in tasca (“girare” è ovviamente un eufemismo locomotorio inopportuno nella mia situazione, ma lo userò ciononostante prendendomi una piccola licenza poetica); mentre giro con due cellulari in tasca, dicevo, il multitasking mi frigge quotidianamente il cervello e violento il browser passando frenetico di scheda in scheda, di contenuto informativo in contenuto informativo, torno indietro a quei momenti con la consapevolezza che se non li avessi vissuti, non avrei avuto la necessaria robustezza mentale per affrontare il bulimico presente.
Nella nostra adolescenza abbiamo allungato in maniera significativa quel fondamentale stato mentale attivo che è tipico dell’infanzia, quando i mondi sono tanti e ancora tutti da scoprire, o da creare. Per anni abbiamo continuato a dare forma a universi fantastici, siamo stati al contempo cantastorie e personaggi, abbiamo saputo immaginare complessi scenari geopolitici, ma soprattutto abbiamo saputo concentrarci sia sullo scenario d’insieme, sia sui suoi elementi particolari: nel farlo, abbiamo imparato a prevedere reazioni e contro-reazioni ad ogni nostra mossa, come in una partita di scacchi , dando di fatto origine a catene logiche di lunghezza potenziale infinita.
Nel farlo, il nostro cervello respirava e si irrobustiva.
Anni spesi ad inventare splendidi universi fittizi hanno inoltre re-indirizzato quelle “energie e miserie adolescenziali che altrimenti sarebbero stati rivolti ad usi ben più distruttivi.”
Nel lontano 2003, la nostra professoressa di filosofia del liceo, dopo averci scoperti a giocare a un gioco di ruolo in classe mentre lei faceva lezione, ci profetizzò una vita di miserie fermi in una Punto Uno bianca (era una Uno, cazzo! o al più una Citroën) al trivio di una metaforica tangenziale, incapaci di procedere oltre se non grazie alla miseranda propulsione della nostra energia onanistica.
Mentre domenica mi facevo annodare il papillon, pensavo a tutto questo: pensavo ai pomeriggi sul ballatoio di casa, ad amicizie senza tempo, al periodo più puro della mia esistenza, agli anatemi della mia professoressa di filosofia e a tanto altro. Pensavo a tutto questo, prima di tornare a rendere omaggio a quel rituale ludico della nostra adolescenza che ha contribuito a fare di noi gli uomini che siamo adesso.
Ma soprattutto, “quante gravidanze indesiderate abbiamo evitato perchè uno dei potenziali partner era troppo impegnato a cercare un tesoro in una cripta?”, o ad invadere il Congo dall’Africa Meridionale?
lacrimuccia