In festa nello sperduto Perù delle Ande
Una piccola comunità a 3400 metri d’altezza. Che non dimentica gli orrori della guerra. Ma sa divertirsi con una gara tra porcellini d’India. Il mio reportage per OggiViaggi.
Alcuni lo chiamano turismo responsabile. Altri, anticonformismo a tutti i costi. Una sola è la certezza: abbattere le barriere tra viaggiatore, viaggio e ‘viaggiato’ non solo è possibile, ma anche relativamente facile.
Per dimostrarlo, ci siamo persi nel Perù più rurale a ballare musica andina con delle mamacitas locali in una sperduta comunità a 3400 metri d’altezza; abbiamo condiviso con esse oscure bevande di mais fermentato o stufati di agnello appena sgozzato; abbiamo partecipato a una entusiasmante consueta corsa di porcellini d’india e ci siamo finalmente addormentati, esausti, in una casa di fango e paglia.
Artigianato, pentoloni ripieni di zuppa e il ricordo commosso di chi fu ammazzato dai guerriglieri maoisti di Sendero Luminoso o, per rappresaglia, dalla milizia: tutto questo, e oltre, è stata la V Feria Agropecuaria, Gastronomica y Artesanal di Llinque, remoto angolo di mondo da novanta famiglie, fieramente arroccate sulle Ande a otto ore da Cusco.
I DUE OCCHI TRISTI DEL PERU
Siamo partiti alle cinque del mattino da Abancay, capoluogo del distretto dell’Apurimac, una delle regioni più falcidiate dalla sanguinosa guerra civile, quella fra guerrilla e stato, che ha annientato almeno un paio di generazioni a partire dagli anni ‘80.
Dal 1986, nella sola regione dell’Apurimac si contano almeno 15.000 vittime e centinaia di migliaia di esodi forzati dalle campagne verso città più sicure come Lima o Arequipa. A Llinque, alcune delle 22 vittime del villaggio furono costrette a scavarsi la fossa da sole, prima di essere ammazzate.
Nonostante l’elettricità sia arrivata solo l’anno scorso, questo paesino è l’unico in tutto il Perù a condividere con la megalopoli e capitale Lima l’occhio che piange, il monumento in ricordo delle vittime del conflitto armato che ha devastato il paese nelle ultime due decadi del secolo scorso.
“Quando il Sendero Luminoso se ne andava, arrivavano i soldati al villaggio a castigare l’uomo,” scrive un bambino in uno dei disegni appesi alla lavagna, in piazza.
La maggior parte delle 75.000 vittime del ‘conflitto’ furono campesinos – o, come si chiamano qui, cholitos della selva. Lo sterminio, per ambo le parti, era facile: a nessuno importava di loro, e nessuno probabilmente aveva mai sentito nominare i villaggi in cui si compivano i massacri.
“In questi vent’anni si è perso più che durante il periodo coloniale in termini di trasmissione della cultura orale. Pochi sono i rituali incaici rimasti, la gente è scappata o ha preferito dimenticare. In alcuni villaggi erano rimaste 10 o 20 persone” spiega l’antropologo David Serra, casco bianco italiano che lavora per APRODEH, la ONG con la quale ci siamo recati a Llinque.
Molti, tuttavia, stanno tornando indietro ai loro campi e oggi ricordano i caduti, con il consueto pudore e la discrezione peruana che si confà a questo tipo di eventi comunitari.
LE CELEBRAZIONI
La giornata in Perù inizia presto, specialmente qui, nei campi. La colazione pertanto deve essere ricca e corroborante, come un brodo di pollo con riso o spaghetti oppure pane e formaggio di capra. Lucia, giovane madre dal cappello tipico decorato con fiori di campo, ce li serve col sorriso e annaffiati da una gran quantità di urpada, una deliziosa bevanda giallastra e calda a base di sette tipi diversi di farina e cannella.
Tutt’intorno, corrono libere le galline o grugniscono placidi i maiali. Il rinfresco di metà mattina, quando già il sole picchia che fa male, a quest’altura, è fatto di chicha fermentata, la bevanda nazionale (se non consideriamo la popolarissima Inka Cola, giallo ureo e un sapore di caramella sciolta) a base di mais condivisa da un unico bicchiere con le grandi mamme locali.
A seguire, la Feria Agropecuaria, Gastronomica y Artesanal di Llinque offre un’appassionante corsa di cuis, i porcellini d’india che in Perù si mangiano e non sono animali da compagnia bensì da allevamento.
APRODEH, la ONG peruana affiliata all’italiana ASPEm con cui ci rechiamo al villaggio e che si occupa di diritti umani, memoria storica e sviluppo produttivo, ha di recente distribuito alcuni di questi porcellini d’india alle famiglie di Llinque, insegnando loro come allevarli e incoraggiando la costruzione di gabbie apposite in ciascuna delle case partecipanti al progetto.
La corsa di cui, dal tifo appassionato per il porcellino di casa, precede di poco il consueto torneo di calcio (maschile e femminile), sport di cui in Perù vanno pazzi – nonostante il livello della selezione nazionale – se è vero che la piazza principale del paesino è fondamentalmente un grande campo da fútbol sterrato.
In mezzo al campo, il sacro si mischia con il profano quando i giocatori dribblano il monumento in pietra dell’occhio che piange, in cui per l’occasione sono state ricollocate le pietre con i nomi dei caduti del conflitto. Giocare a quest’altura, zappando la terra con le scarpe da trekking, fa sanguinare i polmoni, ma è un’esperienza da fare. Ovviamente.
Quando cala la sera, e il freddo si fa sentire potente, è ora di radunarsi in una delle case di mattoni di fango o intorno al fuoco per uno stufato d’agnello con mais o patate (immancabili), una grigliata d’alpaca (dalla carne saporita e filacciosa) o per condividere una birra con gli uomini del posto, tirando la schiuma rimasta nel bicchiere per terra prima di passarlo – come è d’uso da queste parti.
Nel frattempo, della pacchianissima musica andina (che, come dice Wikipedia, è caratterizzata da melodie nostalgiche ed evocative, ma inizia a diventare quasi offensiva per le orecchie dopo un paio di canzoni) pomperà dalle casse del palco, con tutto il suo carico di flauti, charangos e lamenti d’amore. Se sopravvivete al freddo e alla musica, il più è fatto. Il giorno successivo sarà tutto dedicato al ricordo delle vittime del conflitto e, ovviamente, al cibo…
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