Privacy, responsabilità e trasparenza: il paradosso Wikileaks
Ieri sera, sempre alla City University of London (che, possiamo ora rivelare, è l’università in cui sto facendo il mio master in giornalismo), si è svolto un interessante dibattito fra Julian Assange, fondatore di Wikileaks, e David Aaronovitch, giornalista di The Times. A moderare il tutto, tale Jonathan Dimbleby. Il titolo dell’incontro era Too much information? Security and censorship in the age of Wikileaks.
A cura di Index, da anni in prima linea per la libertà di espressione nel Regno Unito (dove, a dir la verità, non se ne sente il bisogno) e all’estero, il dibattito è avvenuto a porte chiuse, nonostante fossero molte le telecamere in attesa all’esterno della sala conferenze. Si è sfiorato anche il paradosso, quando una cronista giapponese, volata dal Sol Levante apposta per coprire l’evento, si è pubblicamente lamentata del fatto che in un dibattito sulla libertà di informazione non fosse permesso ai giornalisti di effettuare foto o riprese dell’evento – ‘coperto’, grottescamente, da una sola fonte ufficiale interna alla stessa università. Neanche si trattasse del congresso del partito comunista Nord Coreano.
Nel parlare di un dibattito in cui ha preso parte una figura così carismatica e controversa come Julian Assange, è fondamentale scindere il piano dell’analisi personale (sull’uomo Julian Assange) dal piano contenutistico (la validità degli argomenti dispiegati dagli interlocutori).
Julian, innanzitutto: il fondatore di Wikileaks è sicuramente un tipo strano. Nessun dubbio su questo. La sensazione non confortevole che la sua voce profonda ti mette addosso è stata addirittura amplificata dall’eco prodotto dai microfoni malfunzionanti di fronte a lui. Probabilmente sociopatico (il passato da hacker qui salta fuori prepotente), introverso, Assange è evidentemente dotato di un QI sopra la media. Sa comunicare e lo sa fare in maniera diretta, quasi brutale. Sa comunicare, ma non è affatto diplomatico. Si arrabbia o impreca ad alta voce se il pubblico o i suoi interlocutori “non ci arrivano”, non colgono le necessarie conseguenze logiche da premesse semplici. Ha costantemente l’aria di voler nascondere (brillantemente) qualcosa. Non risponde quando è alle strette, e lo fa in maniera irriverente e palese. Quando uno spettatore ha chiesto spiegazioni su come Wikileaks sia riuscita a passare al vaglio tutti i 90.000 documenti riservati diffusi lo scorso luglio, Assange ha candidamente risposto “abbiamo complicati software che ci hanno permesso di farlo tramite parole chiave selezionate”. Qualcuno, a questo punto, gli ha fatto notare come la diffusione di documenti riservati che mettono in discussione la privacy di molte persone meriti ben più di una veloce scansione da parte di un software. Il fondatore di Wikileaks, a questo punto, si è irritato: “For god’s sake, what did you not understand of what I’ve just said?”.
Certamente dotato di una morale manichea, in cui tutti i buoni vanno in paradiso e tutti i cattivi sono le istituzioni americane, Assange si è rifiutato anche di rispondere del caso dei leaks all’interno della stessa Wikileaks. “Il collaboratore in questione è stato licenziato per altri motivi. Punto”. Teorie complottistiche (retaggio hacker) a parte, manicheismo semplicistico dall’altra, Assange ha strappato applausi quando ha fatto notare come non si possa discutere del concetto di privacy come “valore assoluto” in quanto questo sarebbe un costrutto meramente occidentale, “che non ha valore in Kenya”. Nessuna battaglia morale, pertanto, contro Wikileaks – o almeno non in nome del supposto valore inalienabile della privacy – soprattutto quando “sono i governi, non le persone, i primi a dover essere trasparenti”.
In mancanza di trasparenza da parte delle istituzioni, è moralmente giusto per Assange (perchè è di una missione morale che si sente investito) che organizzazioni non governative si prendano la responsabilità di informare la società civile, che ha un “public right to understand, not only to know”.
David Aaronovitch, il suo interlocutore-oppositore, ha quindi spostato la discussione – e qui veniamo ai contenuti più spinosi del dibattito – sul piano della responsabilità. La cosiddetta “accountability“.
In una democrazia rappresentativa, sostiene Aaronovitch, un potere (come quello statale) è bilanciato da quegli organi di controllo para-statali che nascono spontanei in seno ad una nazione. Stampa e media in primis. Il punto è questo: chi controlla i controllori? I quotidiani, le televisioni, i siti web sono responsabili verso i propri lettori ma anche di fronte alla legge. Verso chi è responsabile, invece, Wikileaks?
Assange risponde, forse eludendo la domanda (ma è fatto così), che la sua organizzazione è responsabile solo in termini di “verità” trovata e “verità” diffusa. L’obiettivo, molto hegelianamente, è il Bene; punto di sintesi fra tesi e antitesi. Julian Assange provoca il pubblico – ed è molto bravo in questo – facendo riflettere come in realtà i media siano responsabili solo verso i propri finanziatori. Si pensi solamente alle voci che si sono levate contro la guerra in Iraq in seno all’impero mediatico di Murdoch.
Wikileaks, ammette molto onestamente il suo fondatore, non “odora” i soldi che riceve tramite finanziamenti spontanei (respingendo i rumors di sussidi sospetti da parte del governo cinese per spiare il nemico statunitense). Nessuno infatti, all’interno dell’organizzazione, ha accessso alla donor list, la lista dei contribuenti. E questo, in primis, “to protect ourselves from any influence”.
Ma c’è dell’altro. Sul tavolo dell’Oliver Thompson Lecture Theatre alla City University è rimasta irrisolta la questione dello”scivoloso terreno fra etica e necessità di pubblicare i documenti di cui si è in possesso”. Il veterano del Times, David Aaronovitc, ha fatto notare come ragioni di pubblica sicurezza (dei soldati in missione) e di opportunità politica (spionaggio da parte di competitor esteri) suggeriscano a volte di non pubblicare documenti o inchieste scottanti. Il discorso vale anche per documenti di carattere privato come le mail della Palin.
Commozione fra il pubblico quando un afghano ha preso parola per sottolineare come gli attacchi alle forze militari e civili afghane impegnate a fianco degli Stati Uniti fossero aumentati dopo la pubblicazione dei leaks dal Pentagono. Un’accusa tuttavia difficile da provare, che Assange ha smontato seccamente esprimendo il suo scetticismo.
In sala intanto si rumoreggiava. Chi prendeva una parte, chi l’altra. Impossibile rimanere al contempo neutrali o parteggiare assolutamente per l’una o l’altra posizione.
Di tutto il dibattito, rimane soprattutto la controversa e magnetica personalità di Julian Assange e l’appello finale di David Aaronovitch: “Wikileaks ha mostrato la via, ha aperto nuovi orizzonti. Tanti seguiranno, è nato un movimento, un nuovo modo di fare giornalismo. E’ necessario però ricordarsi che” come direbbe Peter Parker, “da un grande potere derivano grandi responsabilità”. E forse, aggiungiamo noi, il dovere di essere trasparenti verso il pubblico. Lo stesso che mostra di nutrire profondo rispetto, nonostante tutto, per il lavoro di Wikileaks. Assange lo deve a tutti coloro che ieri sera non avevano cuore di parteggiare per il vecchio moralista del Times. Non è più possibile predicare bene e razzolare male.
Negli occhi delle persone che sfollano verso i pubs, tormentati dal dubbio, scorrono di nuovo le immagini di quell’elicottero americano che spara e uccide una folla inerme di innocenti. Nonostante tutto, dopo il gran parlare di privacy e accountability, è ancora questa l’immagine più forte della serata.
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