La puntata di Charlando en Buenos Aires della settimana è abbastanza cruda. Con la foto di questo cane miro a suscitare la vostra compassione. Ogni aiuto può essere prezioso.
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Thanks to @sirlisko
Nessun mistero, risponde su Facebook tale Giuseppe De Marzo: “questa è una storia (bellissima) di un numero di Topolino del 1993, che ironizzava sull’allora Governo Ciampi, che era anche quello un governo di tecnici.” Un altro commento recita: “nella storia completa i cittadini all’inizio cedono ma poi si ribellano e le tasse calano a picco!” mentre Maurizio Avenia ci illumina: ” i due Tecnici si chiamavano “Sradica” e “Rastrella”.
Ovviamente, anch’io ero abbonato a Topolino, nel 1993. Grande, grandissimo.
Mentre i giovani italiani per lo più fuggono dal paese e dalla politica – c’è chi si rifugia nell’astensionismo di protesta, chi abbraccia il grillismo e chi il facile vituperio anti-casta da social network – in Argentina il governo dei Kirchner ha fatto dei giovani la propria imprescindibile base elettorale.
Dieci anni fa, urlavano inferociti “che se ne vadano tutti” in direzione dei politici asserragliati nella Casa Rosada, mentre le piazze della bancarotta bruciavano di rabbia. Oggi, scrive Repubblica, nel retroscena che ha portato la “presidenta” a nazionalizzare YPF ai danni della spagnola Repsol c’è, tra i tanti fattori, «il peso sempre maggiore che ha assunto nel governo il gruppo di giovani peronisti, La Cámpora, guidato da Máximo Kirchner, il figlio primogenito di Cristina».
Circolano tante leggende sulla Cámpora. Formatasi dopo la grande crisi dalla confluenza di raggruppamenti politici studenteschi e territoriali, oggi ha seggi in parlamento ed è perfino riuscita piazzare un suo uomo come peso massimo nel governo, il viceministro dell’economia Axel Kicillof – uno dei 200 militanti che hanno avuto accesso finora ad incarichi governativi.
I suoi detrattori – per lo più giornali e televisioni del Grupo Clarín – accusano i giovani della Cámpora di essere borghesotti privilegiati interessati ad arrivare più che a militare; per la sinistra radicale sono approfittatori proprio come Menem, odiato presidente self-made man degli anni ’90 implicato in diversi casi di corruzione.
Altri, invece, insinuano che sfruttino il loro essere “figli di desaparecidos” per indottrinare generazioni più giovani dall’alto di un supposto piedistallo morale, accaparrandosi al contempo posizioni di prestigio (la Cámpora controlla, ad esempio, la ri-nazionalizzata compagnia di bandiera statale, Aerolineas Argentinas, oltre a poltrone chiave in Télam e Canal 7). Quel che è sicuro è che la Cámpora è una potente macchina di mobilitazione politica che conta ad oggi oltre 30.000 militanti e diverse centinaia di sedi in tutto il paese.
Non bastava il petrolio. Dopo la nazionalizzazione della compagnia petrolifera YPF ai danni della spagnola Repsol, l’Argentina alza la posta e dichiara l’embargo contro il pregiatissimo jamon serrano. La Spagna, il primo consumatore al mondo di prosciutti (4-5 kg all’anno a testa, in media), non può tollerare questo ulteriore schiaffo all’orgoglio nazionale, vede rosso e parte alla carica, accusando l’Argentina di cecità commerciale – ovvero, di avere le fette di prosciutto sugli occhi.
Non è il copione del peggior dei b-movie, ma l’ennesima zuffa diplomatica tra due paesi “cugini” (l’Argentina, in fondo, è un paese popolato da discendenti di immigrati spagnoli e italiani). Si tratta, ancora una volta, di “misure protezionistiche” adottate dalle autorità argentine per equilibrare bilancia commerciale e conti pubblici, ha dichiarato – visibilmente irritato – il ministro degli Affari esteri e della Cooperazione Internazionale, José Manuel García-Margallo: «[Tutto questo] non ha ripercussioni solo per la Spagna, ma anche per altri paesi», ha detto. E ha ragione.
Anche il crudo di Parma soffrirà infatti il blocco delle importazioni ai prosciutti stabilito dalle autorità argentine, che hanno firmato un accordo con i produttori di carne di maiale del paese dopo quattro mesi di contrattazioni. Le direttive del segretario per il commercio estero, il potente Guillermo Moreno, sono chiare: incremento della produzione nazionale a stop all’importazione, a discapito dei prosciutti europei e brasiliani che d’ora in avanti troveranno sempre le porte chiuse.
Leggi il resto del mio articolo pubblicato su Linkiesta: http://www.linkiesta.it/argentina-prosciutto#ixzz1uttNXIxh
C’è un luogo fra i tanti, a 37km da Buenos Aires, in cui è possibile sentire sulla propria pelle il vivido anelito di un paese che si affanna, con tutte le sue fibre, verso un futuro migliore. Si tratta del barrio La Perla, un vero e proprio laboratorio sociale fatto di ordinate strade polverose e case prefabbricate, che aspira a divenire il primo quartiere argentino energicamente sostenibile.
Entro il 2012, infatti, cento tra le povere famiglie che vivono in questo sobborgo potranno smettere di riscaldare l’acqua per la doccia nelle pentole in cucina, utilizzando piuttosto l’energia termica prodotta dai pannelli solari installati da una ONG locale, il Foro de Vivienda Social y Eficiencia Energética (FOVISEE).
Spuntato dal nulla alla periferia della già periferica Moreno nel 2009, La Perla è uno dei tanti insediamenti popolari ‘modulari’ apparsi in Argentina dal 2004 — da quando cioè il defunto presidente Nestor Kirchner lanciò l’ambizioso Plan Federal de Viviendas.
Il progetto contemplava la costruzione di almeno 120.000 unità abitative su tutto il territorio nazionale, destinate soprattutto al ricollocamento dei ceti sociali più poveri alloggiati nelle fatiscenti case di lamiera delle villas miserias.
Un programma grandioso. Un sogno filantropico da 3.9 miliardi di pesos e 360.000 posti di lavoro. Qui, tuttavia, è d’obbligo il luogo comune: ogni rosa ha le sue spine. Nel nostro caso, ogni Perla. “Questo quartiere è stato costruito senza tener conto dei più elementari criteri di efficienza energetica. Molte case non hanno l’allacciamento al gas e sono esposte ai raggi solari sul lato sbagliato”, spiega Ashley Valle, volontaria a tempo pieno per FOVISEE. “Le persone riscaldano ancora l’acqua per lavarsi attraverso pericolose stufette elettriche o nelle pentole, in cucina.”
Ashley e María Fernanda Miguel, ventottenne direttrice della ONG, vengono a Moreno ogni venerdì per monitorare l’avanzamento del loro Progetto 100. L’obiettivo, come dice il nome, è quello di installare pannelli solari per l’energia termica sui tetti di almeno 100 case del barrio e, al contempo, promuovere la qualità della vita in un quartiere fatto per lo più di famiglie che arrivano a guadagnare poche centinaia di pesos al mese.
Articolo pubblicato per Pangea News: continua qui la lettura.
Ci avevano provato per anni a funzionare assieme, Messico e Brasile, i due paesi più grandi dell’America Latina. Nel 2010, Calderón e Lula avevano annunciato addirittura annunciato a Cancun di avere dei piani per stipulare un patto di libero scambio fra i due paesi.
“Le due economie più forti del Latino America. Immaginate cosa possiamo fare assieme, immaginate se riuscissimo a complementarci l’un l’altro,” aveva dichiarato Calderon, ottimista.
Niente di fatto. Come riporta il Latin Business Chronichle (LBC) due anni dopo, le trattative si sono arenate su un trattato di deregolamentazione del commercio di automobili e pezzi di ricambio chiamato ACE 55. Da un lato, il Brasile alza barriere protezionistiche per mettere al riparo la sua economia dal contagio della crisi, dall’altro un Messico sempre più in crescita non gradisce.
Tradizionalmente, i due paesi non commerciano l’un l’altro più di tanto. Non lo fanno né con abbondanza né con stupefacente profitto. Nel 2010, l’export messicano con direzione Rio e San Paolo è stato di 3,78 miliardi di dollari, un misero 1,3% del totale delle esportazioni (più o meno lo stesso volume d’affari tra Messico e Colombia, un paese di scala infinitamente più ridotta). Viceversa, il Brasile ha esportato merci per un totale di appena 4,3 miliardi di dollari – ancora una volta, solo un 1,5% dell’import totale messicano.
Inoltre, i (pochi) flussi commerciali fra i due paesi sono cambiati in volume e qualità nel corso degli anni.
Il caso dell’industria automobilistica è esemplare. Una volta erano i brasiliani che esportavano auto nel paese di Calderón per un totale di 10milioni di dollari (2003-2009). Negli ultimi anni, le parti si sono invertite, finchè lo scorso anno è stato il Brasile a comprare dal Messico auto e parti per un totale di 2,1 miliardi di dollari.
Esperti intervistati dal Latin Business Chronichle ritengono tuttavia che le cose fra i due paesi possano finalmente cambiare nell’immediato.
Leggi il resto su Linkiesta o su Pangea News.
(tratto da Maradona di Kosturica)
Articolo originariamente pubblicato su PangeaNews e, in versione radiofonica, andato in onda su Radio Fujiko.
Si dice che si capisca davvero cosa sia l’inflazione quando si arriva alla pompa di benzina o quando ci si siede al bancone di un bar, sorseggiando una buona tazza di caffè che, d’improvviso, viene a costare più del giorno prima. In Argentina, il corrispettivo del caffè è la popolarissima erba mate e se, dopo i combustibili e l’elettronica importata, anche il suo prezzo inizia ad aumentare, allora c’è da temere un’insurrezione.
I prezzi della yerba – con cui gli argentini preparano più volte al giorno la loro infusione preferita – sono aumentati nelle ultime settimane anche del 100%. E quando mercoledì il quotidiano economico Ambito Financiero ha rivelato che il mate costa meno sugli scaffali di Madrid o di Parigi, si è sfiorato il grottesco, soprattutto, perchè negli scaffali argentini il mate è cominciato a calare, fino a sparire del tutto ed essere sostituito da cartelli, spesso strappati da vecchiette indignate, con su la scritta: «Massimo 1 kg di mate a persona» o addirittura «Non c’è mate».
Ma com’è possibile che l’Argentina, primo produttore di yerba mate, davanti a Paraguay e Brasile, con una produzione annuale di 300.000 tonnellate l’anno, quasi tutte per destinate al consumo interno; si risvegli all’improvviso senza ciò che non hai pensato potesse venirle a mancare? I colpevoli, sono una concomitanza di fattori, di cui il principale è la disputa sulle tariffe, che ha portato alcuni produttori a tenere in magazzino le scorte di mate, in attesa che i prezzi si alzassero, così come i loro margini di guadagno.
Come accade con molti prodotti, è lo Stato a fissare il prezzo di produzione. I sussidi aiutano a mantenere artificialmente basso il costo di un bene o di un servizio, che si tratti di energia elettrica o carne. Quando lo scorso marzo i produttori di mate delle provincie di Misiones e Corrientes, da dove arriva la yerba, sono scesi in piazza per chiedere che venissero modificati i prezzi – da troppo tempo ancorati al basso rispetto al levitare dell’inflazione – il ministro dell’agricoltura Norberto Yauhar ha concesso un innalzamento dell’89% del costo della foglia verde (da 90centesimi a 1,70pesos al chilo) e del 109% (da 3,30 a 6,90pesos al chilo) per l’erba canchada, ovvero quella già seccata.
Secondo i piani, l’aumento – una boccata d’ossigeno soprattutto per i piccoli produttori – avrebbe avuto conseguenze per il consumatore solo a partire dal prossimo anno. Qualcosa però è andato storto. I prezzi hanno iniziato a schizzare fin da subito, e dalla segreteria di Commercio, il potentissimo Guillermo Moreno – eminenza grigia kirchnerista dietro la regolazione dell’import-export, ovvero colui che avrebbe dovuto approvare le nuove tariffe – non le ha mandate a dire a quelli del ministero dell’agricoltura. Mentre la Presidenta minacciava di bloccare le esportazioni e iniziare ad importare yerba dagli stati vicini, se i prezzi si fossero mantenuti tali, Moreno si riuniva con i tre colossi nazionali del mate stabilendo un prezzo medio del prodotto finito di 10,50pesos (16-18 pesos sullo scaffale).
E’ ovviamente nell’interesse dello stato che il mate non aumenti senza controllo, visto che la yerba figura fra i prodotti del paniere familiare presi come campione per calcolare il tasso di inflazione ufficiale (a sua volta utilizzato per rinegoziare gli aumenti salariali). I piccoli produttori hanno gridato al complotto fra stato e grandi gruppi industriali, volto a minare l’accordo favorevole precedentemente raggiunto col ministero dell’agricoltura.
A complicare le già tese relazioni fra Buenos Aires e le province del nord, l’esistenza di un’ ipotetica nota, circolata presso l’Instituto Nacional de la Yerba Mate (INYM), in cui si informava i produttori che i nuovi prezzi accordati dal ministro dell’agricoltura Yauhar avrebbero incluso l’IVA. Uno scandalo, giacché tradizionalmente in Argentina non si paga l’IVA sulle materie prime. Temendo di vedere i propri guadagni ulteriormente ridotti di un altro 21%, i piccoli produttori hanno minacciato blocchi stradali e il boicottaggio del prodotto.
L’allarme è rientrato quando dal governo hanno fatto sapere che quella dell’IVA era stata un’indiscrezione priva di ogni fondamento. I consumatori sono stati invitati a denunciare “le speculazioni politiche” di quelle aziende che rincarano i prezzi oltre i 16/18pesos consentiti e Yauhar ha promesso che il tutto si normalizzerà a partire dalla prossima settimana.
I fantasmi dell’iper-inflazione sono stati momentaneamente scacciati, forse. La lotta del paese contro le sue stesse contraddizioni strutturali, tuttavia, è ancora ben lungi dall’esser vinta.