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Il Question Time di Boris

Dopo l’isteria di Halloween, che si è propagata per tutto il weekend con migliaia di persone per le strade spalmate di sangue finto o con coltelli di plastica infilzati nel cervello, Londra torna ad un tipo di isteria più normale, che ha a che fare con gli scioperi per i tagli del governo, gli scioperi del trasporto pubblico e i comuni disagi della vita da pendolare. Parliamo della notte di Bonfire, in cui si celebra quello che alle scuole medie abbiamo imparato essere chiamata anche Guy Fawkes day: ogni anno infatti a Londra viene ricordato il fallimento del complotto delle polveri del 5 November 1605, nel quale un certo numero di cospiratori cattolici, tra cui il buon Guy Fawkes, tentarono di fare saltare in aria la camera dei Lord di Londra.

Proprio per la notte “dei falò”, per tagliarla corta, in cui sono previsti come al solito grandiosi fuochi d’artificio, a scioperare saranno…i pompieri! E non solo. A gettare benzina sul fuoco, è proprio il caso di dirlo, il fatto che lo stesso giorno si celebra Diwali, che è un po’ il “festival della luce” indiano.
I pompieri proteseranno contro il sistema dei turni che la London Fire Authority vuole imporre loro. Non solo però i pompieri a scioperare, questa settimana, ma anche il personale della metro. E ogni volta che qui sciopera la metro sono guai: l’intera città si riversa sulle strade, come sto per fare io in questo momento, ed è il caos e la paralisi.
Il sindaco di Londra, Boris Johnson, come di consueto di rifiuta di dialogare in maniera costruttiva con i sindacati. Guardatevi qualche video su Youtube del sindaco di Londra, è assolutamente esilarante. Un personaggio grande e goffo dalla voce potente e dalla retorica infarcita di battute, Boris era una specie di John Belushi a Oxford.

Il casinaro dell’Eton college, il goliarda capo dell’università. Londra si ritrova governata da un giullare. Una situazione che ricorda da vicino quella di un altro paese, non di un’altra città. Citando una battuta di Spinoza.it, “Premier coinvolto in vicende torbide con una minorenne. Per motivi di privacy non sarà reso noto il nome del premier.”

Ieri sera siamo andati a sentire il Question Time settimanale del sindaco Boris. Ogni settimana, infatti, il consiglio comunale si riunisce in qualche teatro/casa consiliare di Londra e per due ore ascolta le richieste dei cittadini qualunque. Bisogna prenotarsi online, ma solitamente si trova spesso posto. E’ una sorta di grande liturgia, uno show, un’abile mossa comunicativa. Per due ore, i cittadini si fanno arringare dalle tirate retoriche di Boris, sempre infarcite di battute, applaudono, fischiano e commentano la politica, che si dispiega davanti ai loro occhi nella più assoluta normalità. Possiamo assistere ad assessori che danno dell’incompetente al sindaco, cittadini che rivolgono domande sarcastiche ai politici e vecchiette che inneggiano entusiaste a Boris, ma nella più assoluta civiltà. Un membro dell’assemblea, si noti, un politico, non un usciere, modera il dibattito, mantenendo come linea guida la brevità e la pertinenza: domande secche, risposte appropriate. Si discute con la più assoluta civiltà di ogni cosa, dalla raccolta differenziata porta a porta agli appalti per miliardi di pound delle prossime olimpiadi.

Nonostante tutto ciò sia più propaganda civica che altro, mi è venuto un po’ il magone quando Boris ha ricordato a tutti che si porta sempre una webcam addosso, cosicchè i cittadini possono controllare ogni sua mossa. Perchè noi non abbiamo lo stesso privilegio con Berlusconi? Sarebbe molto, molto più interessante, viste le ultime notizie apparse sui giornali… Immaginatevi il boom di diffusione di internet in Italia, in tal caso, la marea persone connesse alla rete… soprattutto di notte… tutti a guardare il “lettone di Putin”… allora sì che Internet in Italia decollerebbe!

The lost generation

© The Economist Newspaper Limited 2009

L’uomo che ha due giorni fa ha spolpato il Regno Unito, come suggerisce l’Economist di questa settimana, si chiama George Osborne e di professione fa il Cancelliere dell’esecutivo. Una specie di Tremonti, dal sangue blu e con un prestigioso passato ad Oxford, come di convenienza. L’uomo che ha messo in mutande uno dei piu’ potenti stati del mondo ha appena trentanove anni.

A trentanove anni, si e’ alzato in piedi e senza timore ha reso pubblica la tanto temuta Spending Review. Un programma da 80 miliardi di sterline, “severo ma giusto” (come e’ stato definito dai suoi stessi autori), che rischia di provocare una vera e propria rivolta sociale come non si vedeva dai tempi della Thatcher.

Tutto qui. Non entero’ nel dettaglio. Volevo solo far notare che Osborne ha trentanove anni, e la responsabilita’ piu’ grande di tutte sulle spalle.

Tremonti e’ nato nel 1947 ed e’ il politico piu’ rampante del momento nel Belpaese. Tra i due, quasi venticinque anni di differenza. Un’intera generazione. Persa per sempre.

Non lo fareste un mutuo per vincere il Nobel?

Sono giorni duri per David Cameron, affettuosamente chiamato Dave dai suoi compatrioti. George Osborne ha annunciato i previsti tagli draconiani a quel welfare state che da piu’ di cinquant’anni e’ una delle pietre angolari del sistema britannico. Tagli sono previsti anche nel settore del pubblico impiego, nonostante Cameron si sia gia’ affrettato a precisare che la sanita’ non si tocca.
La cosa fa spaventare piuttosto e anzicheno’ i nostri amici inglesi. Stando al vice-ambasciatore a Londra, Stefano Pontecorvo, economista, la spesa pubblica si mangia almeno la meta’ della ricchezza prodotta nel Regno Unito. Come a dire che un inglese su due dipende in maniera pressoche’ totale da mamma-Stato. “L’ultimo vero stato comunista d’Europa”, la definizione illuminante del sig. Pontecorvo. Normale che i tagli facciano paura. Ad essere colpita soprattutto la scuola e il sistema universitario. Gia’ nel 1998, gli inglesi furono costretti ad assistere alla fine delle universita’ gratis per tutti, con l’introduzione da parte di Tony Blair delle tuition fees. Le “tasse universitarie”, cosi come sono chiamate da noi, sono attualmente fissate a poco piu’ di tremila sterline per un corso di laurea triennale (o equivalente). Se dovesse passare l’idea del parlamentare Lord Browne, il tetto massimo di spesa per una laurea schizzerebbe a 12.000 pound all’anno. Chi frequenta Oxbridge, quindi, rischierebbe di pagare fino a 36.000 sterle per il suo bachelor. Magari pure in arte e letteratura.
Facendo divisioni nette e manichee, i ricchi non avrebbero (o quasi) problemi. La gran parte degli inglesi invece, bassa middle-class, sarebbe nella….
Chi guadagna appena sopra i 21.000 pound all’anno (la soglia di poverta’ si alza di un poco) potrebbe infatti ritrovarsi a pagare il mutuo per la sua istruzione per i successivi 30 anni.

Su questo punto, i Libdem di Nick Clegg si giocano la faccia. Uno dei punti del loro programma era proprio il ritorno alla gratuita’ dell’istruzione. Compromesso dopo compromesso pur di condividere il salotto di Downing Street, i liberal democratici sembrano non ricordarsi piu’ (se non qualche dissidente) delle promesse elettorali e sembrano rassegnati ad accettare le richieste del padrone. Quelli piu’ forti: i conservatori.

Il giuovin rampollo laburista Ed Milliband, ex sindacalista-comunista-ebreo-ateo, critica sta alla porta. E aspetta il passo falso dei conservatori. Con molto garbo e compunzione. Suvvia, siamo pur sempre inglesi.

Intanto, un ricercatore 36enne qui ha appena vinto un nobel. Il Fatto Quotidiano provocava, titolando “Il nobel ad un precario”. Andre Geim e Konstantin Novoselov hanno infatti vinto il prestigioso riconoscimento “per gli innovativi esperimenti sul grafene”.


Mentre anche qui, come in Italia, si preparano le proteste di piazza contro l’innalzamento delle tuition fees, vale la pena riflettere su quanto di buono resta ancora del nostro sistema universitario. E su quanto siamo disposti a difenderlo dagli sfasci istituzionali.
Scappare all’estero per evitare l’ingorgo e la cloaca nostrana e rischiare di vincere un Nobel puo’ configurarsi sempre piu’ come una scelta legittima. Almeno quando ce lo si puo’ permettere. Altrimenti, ci viene da pensare, forse un mutuo vale davvero la candela.

Liverpool e il boicottaggio al Sun lungo 20 anni

Era il 15 Aprile 1989, ad affrontarsi per le semifinali di FA Cup in campo Liverpool e Nottingham Forest. Lo stadio era quello di  Hillsborough, casa dello Sheffield Wednesday F.C. A morire schiacciati dalla calca, quel giorno, furono 96 persone, tutti fan del Liverpool. La piu’ grande tragedia sportiva per i Liverpudlians dopo quella fatale Liverpool-Juventus allo stadio Heysel, nel 1985.

Il mercoledi’ seguente, il Sun, tabloid di proprieta’ di Rupert Murdoch, macchio’ l’onore di una citta’ intera, accusando i supporters del Liverpool di aver razziato i cadaveri dei 96 fan appena deceduti derubandoli dei portafogli (Liverpool e’ famosa in Inghilterra per la tirchieria dei suoi abitanti), e addirittura, in alcuni casi, di necrofilia. Altre accuse furono sbattute in prima pagina dall’allora editor del Sun, Kelvin MacKenzie, come quella di aver urinato sui poliziotti o aver picchiato i soccorritori.

Da quel giorno, nessuno a Liverpool compra piu’ il Sun, tuttora irreperibile nelle edicole della citta’. Gli strilloni agli angoli delle strade si vedono rifiutato il tabloid dai passanti.


L’impero finanziario e mediatico di Rupert Murdoch si e’ dovuto inchinare all”orgoglio di una citta’ che ancora non dimentica, nonostante gli anni passati e le decine di public apologies da parte dei successivi editori del quotidiano.

Per ulteriori dettagli, rimando al link su Wikipedia da cui ho “largamente” attinto: http://en.wikipedia.org/wiki/Hillsborough_disaster#The_Sun_newspaper_controversy


I quotidiani in Inghilterra

Come dice Wikipedia, Yes Minister è stata una sitcom inglese satirica scritta da Sir Antony Jay e Jonathan Lynn, trasmessa dalla BBC tra il 1980 e il 1984. Tre serie da sette episodi l’una. Il sequel, Yes, Prime Minister, è andata in onda dal 1986 al 1988. Questo un estratto significativo per darci un’idea della stampa qui in Gran Bretagna. Un paese in cui, come in Italia, il tabloid più diffuso vende quasi 3 milioni di copie giornaliere, il Daily Mail riesce a superare quota 2 milioni e il Mirror quota un milione. I più istituzionali The Times e The Guardian vendono invece come la Gazzetta dello Sport.

Hacker: Don’t tell me about the press. I know exactly who reads the papers: the Daily Mirror is read by people who think they run the country; The Guardian is read by people who think they ought to run the country; The Times is read by people who actually do run the country; the Daily Mail is read by the wives of the people who run the country; the Financial Times is read by people who own the country; The Morning Star is read by people who think the country ought to be run by another country; and The Daily Telegraph is read by people who think it is. Sir Humphrey: Prime Minister, what about the people who read The Sun?
Bernard:
Sun readers don’t care who runs the country, as long as she’s got big tits.

(trad)
– Non parlarmi della stampa. So esattamente chi sono i lettori dei quotidiani: il Daily Mirror è letto da coloro che governano il paese; il Guardian da coloro che pensano tocchi a loro governare; il Times è letto dalle persone che realmente governano il paese; il Daily Mail è letto dalle mogli di coloro che governano il pese; il Financial Times è letto da coloro ceh possiedono il paese; il Morning Star è letto da coloro che pensano che il paese debba essere governato da un altro paese; il Daily Telegraph è letto da coloro che pensano che effettivamente lo sia.
– E che mi dice del Sun, signor Primo Ministro?
– Ai lettori del Sun non interessa chi governa il paese, a patto che abbia tette enormi.

Privacy, responsabilità e trasparenza: il paradosso Wikileaks

Ieri sera, sempre alla City University of London (che, possiamo ora rivelare, è l’università in cui sto facendo il mio master in giornalismo), si è svolto un interessante dibattito fra Julian Assange, fondatore di Wikileaks, e David Aaronovitch, giornalista di The Times. A moderare il tutto, tale Jonathan Dimbleby. Il titolo dell’incontro era Too much information? Security and censorship in the age of Wikileaks.

A cura di Index, da anni in prima linea per la libertà di espressione nel Regno Unito (dove, a dir la verità, non se ne sente il bisogno) e all’estero, il dibattito è avvenuto a porte chiuse, nonostante fossero molte le telecamere in attesa all’esterno della sala conferenze. Si è sfiorato anche il paradosso, quando una cronista giapponese, volata dal Sol Levante apposta per coprire l’evento, si è pubblicamente lamentata del fatto che in un dibattito sulla libertà di informazione non fosse permesso ai giornalisti di effettuare foto o riprese dell’evento – ‘coperto’, grottescamente, da una sola fonte ufficiale interna alla stessa università. Neanche si trattasse del congresso del partito comunista Nord Coreano.

Nel parlare di un dibattito in cui ha preso parte una figura così carismatica e controversa come Julian Assange, è fondamentale scindere il piano dell’analisi personale (sull’uomo Julian Assange) dal piano contenutistico (la validità degli argomenti dispiegati dagli interlocutori).
Julian, innanzitutto: il fondatore di Wikileaks è sicuramente un tipo strano. Nessun dubbio su questo. La sensazione non confortevole che la sua voce profonda ti mette addosso è stata addirittura amplificata dall’eco prodotto dai microfoni malfunzionanti di fronte a lui. Probabilmente sociopatico (il passato da hacker qui salta fuori prepotente), introverso, Assange è evidentemente dotato di un QI sopra la media. Sa comunicare e lo sa fare in maniera diretta, quasi brutale. Sa comunicare, ma non è affatto diplomatico. Si arrabbia o impreca ad alta voce se il pubblico o i suoi interlocutori “non ci arrivano”, non colgono le necessarie conseguenze logiche da premesse semplici. Ha costantemente l’aria di voler nascondere (brillantemente) qualcosa. Non risponde quando è alle strette, e lo fa in maniera irriverente e palese. Quando uno spettatore ha chiesto spiegazioni su come Wikileaks sia riuscita a passare al vaglio tutti i 90.000 documenti riservati diffusi lo scorso luglio, Assange ha candidamente risposto “abbiamo complicati software che ci hanno permesso di farlo tramite parole chiave selezionate”. Qualcuno, a questo punto, gli ha fatto notare come la diffusione di documenti riservati che mettono in discussione la privacy di molte persone meriti ben più di una veloce scansione da parte di un software. Il fondatore di Wikileaks, a questo punto, si è irritato: “For god’s sake, what did you not understand of what I’ve just said?”.
Certamente dotato di una morale manichea, in cui tutti i buoni vanno in paradiso e tutti i cattivi sono le istituzioni americane, Assange si è rifiutato anche di rispondere del caso dei leaks all’interno della stessa Wikileaks. “Il collaboratore in questione è stato licenziato per altri motivi. Punto”. Teorie complottistiche (retaggio hacker) a parte, manicheismo semplicistico dall’altra, Assange ha strappato applausi quando ha fatto notare come non si possa discutere del concetto di privacy come “valore assoluto” in quanto questo sarebbe un costrutto meramente occidentale, “che non ha valore in Kenya”. Nessuna battaglia morale, pertanto, contro Wikileaks – o almeno non in nome del supposto valore inalienabile della privacy – soprattutto quando “sono i governi, non le persone, i primi a dover essere trasparenti”.
In mancanza di trasparenza da parte delle istituzioni, è moralmente giusto per Assange (perchè è di una missione morale che si sente investito) che organizzazioni non governative si prendano la responsabilità di informare la società civile, che ha un “public right to understand, not only to know”.

David Aaronovitch, il suo interlocutore-oppositore, ha quindi spostato la discussione – e qui veniamo ai contenuti più spinosi del dibattito – sul piano della responsabilità. La cosiddetta “accountability“.
In una democrazia rappresentativa, sostiene Aaronovitch, un potere (come quello statale) è bilanciato da quegli organi di controllo para-statali che nascono spontanei in seno ad una nazione. Stampa e media in primis. Il punto è questo: chi controlla i controllori? I quotidiani, le televisioni, i siti web sono responsabili verso i propri lettori ma anche di fronte alla legge. Verso chi è responsabile, invece, Wikileaks?
Assange risponde, forse eludendo la domanda (ma è fatto così), che la sua organizzazione è responsabile solo in termini di “verità” trovata e “verità” diffusa. L’obiettivo, molto hegelianamente, è il Bene; punto di sintesi fra tesi e antitesi. Julian Assange provoca il pubblico – ed è molto bravo in questo – facendo riflettere come in realtà i media siano responsabili solo verso i propri finanziatori. Si pensi solamente alle voci che si sono levate contro la guerra in Iraq in seno all’impero mediatico di Murdoch.
Wikileaks, ammette molto onestamente il suo fondatore, non “odora” i soldi che riceve tramite finanziamenti spontanei (respingendo i rumors di sussidi sospetti da parte del governo cinese per spiare il nemico statunitense). Nessuno infatti, all’interno dell’organizzazione, ha accessso alla donor list, la lista dei contribuenti. E questo, in primis, “to protect ourselves from any influence”.

Ma c’è dell’altro. Sul tavolo dell’Oliver Thompson Lecture Theatre alla City University è rimasta irrisolta la questione dello”scivoloso terreno fra etica e necessità di pubblicare i documenti di cui si è in possesso”. Il veterano del Times, David Aaronovitc, ha fatto notare come ragioni di pubblica sicurezza (dei soldati in missione) e di opportunità politica (spionaggio da parte di competitor esteri) suggeriscano a volte di non pubblicare documenti o inchieste scottanti. Il discorso vale anche per documenti di carattere privato come le mail della Palin.
Commozione fra il pubblico quando un afghano ha preso parola per sottolineare come gli attacchi alle forze militari e civili afghane impegnate a fianco degli Stati Uniti fossero aumentati dopo la pubblicazione dei leaks dal Pentagono. Un’accusa tuttavia difficile da provare, che Assange ha smontato seccamente esprimendo il suo scetticismo.

In sala intanto si rumoreggiava. Chi prendeva una parte, chi l’altra. Impossibile rimanere al contempo neutrali o parteggiare assolutamente per l’una o l’altra posizione.
Di tutto il dibattito, rimane soprattutto la controversa e magnetica personalità di Julian Assange e l’appello finale di David Aaronovitch: “Wikileaks ha mostrato la via, ha aperto nuovi orizzonti. Tanti seguiranno, è nato un movimento, un nuovo modo di fare giornalismo. E’ necessario però ricordarsi che” come direbbe Peter Parker, “da un grande potere derivano grandi responsabilità”. E forse, aggiungiamo noi, il dovere di essere trasparenti verso il pubblico. Lo stesso che mostra di nutrire profondo rispetto, nonostante tutto, per il lavoro di Wikileaks. Assange lo deve a tutti coloro che ieri sera non avevano cuore di parteggiare per il vecchio moralista del Times. Non è più possibile predicare bene e razzolare male.
Negli occhi delle persone che sfollano verso i pubs, tormentati dal dubbio, scorrono di nuovo le immagini di quell’elicottero americano che spara e uccide una folla inerme di innocenti. Nonostante tutto, dopo il gran parlare di privacy e accountability, è ancora questa l’immagine più forte della serata.

Giornalismo, nuove frontiere: un’espansione orizzontale

Pochi giorni fa mi è capitato di assistere ad una lezione introduttiva di Online Journalism alla City University of London. Il giovane rampollo del web, tale Paul Bradshaw, l’ha sparata subito grossa:

“if something is online, it is perceived as part of reality, but if it is not it might as well not exist”

Una piccola citazione che presuppone un rovesciamento copernicano di prospettiva. Non è più la realtà che determina il web ma il contrario: è il web a stabilire cosa è reale o no. Evidentemente Paul Bradshaw non è mai stato adescato su internet da un nerd ciccione che si spacciava per una formosa playmate. Neanch’io, non fraintendetemi.
Il tempo di riprendermi dal piccolo shock, peraltro mai del tutto rielaborato, e la lezione ha toccato temi fondamentali per il giornalismo cibernetico contemporaneo. Come l’importanza di avere un account google per potere alzarsi ogni mattina in compagnia di Google Reader e dei 2000 articoli appena usciti sui 354 blog ai quali ci siamo abbonati tramite feed.
Diamo per scontato il fatto che, in un’ipotetica mattina di totale rincoglionimento, il cappuccino che teniamo in mano possa darci le energie appena sufficienti per leggere un paio di titoli e metà di un post che ci sembra vagamente interessante.
Il buon giornalista – e, mi permetto di avanzare, il buon cibernauta – dovrà però avere almeno un account con twitter e uno con delicious. Senza menzionare Facebook. Ora, non so se abbiate presente come funzioni twitter. Fondamentalmente, non fa altro che aggiungere altri 458 articoli online ai 2000 che già Google Reader ci forniva. Tocchiamo così quota 2458 articoli di giornali, riviste, magazine. Quanti quelli letti? Appena uno e un quarto (forse).
Delicious, poi, contribuisce ad espandere ancor più l’infinita galassia del nostro spaesamento. Permettendoci di taggare e bookmarkare articoli, blog e siti interessanti, e di condividerli con i nostri amici, pardon, contatti, fa sì che ci ritroviamo con un archivio di almeno 845.500 elementi interessanti da spulciare.
I miei 2458, più gli altri 843.042 che la rete globale pensa si addicano ai miei gusti.

L’evoluzione è compiuta. Il giornalista, o il semplice cittadino, smette di informarsi. Spizzica e sbocconcella qua e là, tagga e bookmarca a destra e a manca ma – per mancanza di tempo – sarà per sempre condannato a non leggere mai ciò che trova interessante, o ciò che gli altri trovano gli possa interessare.
L’espansione è a macchia d’olio. Orizzontale. In verticale, mai. Perchè scendere in profondità si può, ma solo a patto di avere tempo di approfondire. E non si dà approfondimento senza lettura.

Continuando a taggare, segnalare, mettere tra i preferiti a aggiungere sottoscrizioni, forse sguggiremo la consapevolezza del nostro triste destino. E saremo un po’ più interessanti agli occhi degli altri, questo sì.