Skip to content

Sullo sfogo di Francesca Borri

**

Per chi volesse farsi un’idea del dibattito in corso sull’articolo da me pubblicato qualche giorno fa, rimando a questo interessantissimo pezzo sul blog collettivo Valigia Blu di Arianna Ciccone. Allora, furono le mie considerazioni a caldo.
Al di là di ogni sensazionalismo – di cui sono caduto vittima pure io.

Quel che resta, oltre l’opportunità di rischiare la vita per pochi spiccioli,  oltre i pezzi di cervello in grembo e le canzoni dei Radiohead, è un mercato dei media che basa le sue tariffe non sulla qualità del contenuto offerto, ma su altri parametri che essa trascendono.

Ignorando tutto questo parlarsi addosso (“giornalisti plaudenti con il culo al caldo“, ne definisce alcuni Mantellini), restano i miei amici sparsi in Sud America e chissà dove, costretti al doppio lavoro perchè la qualità degli articoli proposti non è mai abbastanza per sopravvivere degnamente.

E allora cito Valentina Avon sul blog di Mantellini:

“Ma se una vittima denuncia un reato, che si fa, si passa il tempo a parlar di lei? O magari si fa anche qualche verifica sul reato? Ok, paragone azzardato e irriverente, ma è per rendere l’idea.

Al di là di motivazioni e argomenti, sicuramente discutibili, della freelance Borri, che gli editori, anche e soprattutto di rango, paghino un piatto di ceci resta un fatto. Che tu sia a Aleppo o a Trebaseleghe conta poco, come conta poco molto altro (quanto hai speso per fare il pezzo interessa a nessuno). Non è un reato, ma neanche una cosa bella.

Quando il discorso si sposta su questa china, parte il ritornello del libero mercato. E va ben. Ma libero mercato non vuol dire che tu paghi dei Cartier come fossero Swatch. Vuol dire che in giro ci saranno solo Swatch.

L’editore paga poco a prescindere dalla qualità del pezzo (a meno che di peso non sia la firma, in genere storica: trovatemi un freelance di rango che non sia stato anche, prima, un redattore di lungo corso. Del resto il mestiere si impara anche così, e questo apre la porta a un’altra valangata di questioni, ma per ora andiamo oltre). E questo, fra l’altro, causa non pochi problemi ai capiservizio, che non possono incentivare chi vorrebbero (e tu freelance che stai parlando col collega delle tue miserie finisci col sorbirti le sue, di lagne). Il potere contrattuale del freelance è pari a zero: immaginatevi un singolo, forte solo del proprio lavoro, che va a trattare con Marchionne (per restare alla Stampa).

A questo punto va spiegato anche, ai profani del desk, che non è che non ti pubblicano i pezzi in prima prima pagina (la questione non è: non mi fanno lavorare), è che quando lo fanno ti pagano quanto non basta neanche a coprirti le spese, e pure le tasse. Neanche uno Swatch, ti ci compri. La distanza fra la retribuzione di un assunto e di un freelance è siderale. E sorvoliamo su quelli che addirittura ti fregano le notizie per passarle a un loro redattore.

E qui arriviamo all’ultima fase. Quella in cui tu ti compri un giornale. Pagando. Per leggere in prima pagina un lavoro che lo stesso editore crede che non valga abbastanza da essere retribuito secondo quanto è costato in termini di lavoro e spese”

Continua a leggere qui. 

 ** 

Aggiornamento: grazie a Barbara Schiavulli e al suo intervento per ValigiaBlu. Non avrebbe potuto essere più chiara di così.

Screen Shot 2013-07-15 at 12.50.06

 

Rischiare la vita per una pacca sulla spalla – e spesso neanche quella.

Leggo questo pezzo segnalatomi da @gianlucamezzo e mi commuovo.
Mi commuovo per Francesca Borri, corrispondente di guerra, freelance. Mi commuovo per lei, e per tutti i paria di una professione ingrata, che si prendono le pallottole sulle ginocchia al fronte per sentirsi dire “va bene, lo pubblico, ma non a nome tuo. A nome del mio corrispondente con contratto regolare.”

Che, fra le righe, equivale a un bel: “hai rischiato la vita per $70, ma da direttore di un sito d’informazione, non sono capace di attribuire a questo tuo sacrificio un valore maggiore di una galleria fotografica della Marcuzzi in topless – soprattutto agli occhi del mio pubblico.”

 “La mia giovinezza, per quel che vale, è svanita quando dei pezzi di cervello sono schizzati su di me in Bosnia. Avevo 23 anni.”

“La crisi oggi è una crisi dei media, non del pubblico. Il pubblico è sempre lì, al contrario di quanto molti caporedattori credano: sono lettori intelligenti che chiedono semplicità senza semplificazione. Vogliono capire, non sapere semplicemente sapere. Ogni volta che pubblico un racconto di prima mano sulla guerra, ricevo dozzine di email da gente che mi dice “Okay, bel pezzo, bella descrizione, ma voglio capire cosa succede in Siria.” E quanto sarei felice di rispondere che non posso semplicemente mandare un pezzo di analisi, perchè gli editors lo casserebbero, dicendomi: ‘Chi pensi di essere, ragazzina?’ nonostante abbia tre lauree, abbia scritto due libri, e trascorso 10 anni in varie zone di guerra, prima come responsabile nel settore dei diritti umani, quindi ora come giornalista.”  

Freelancers are second-class journalists—even if there are only freelancers here, in Syria, because this is a dirty war, a war of the last century; it’s trench warfare between rebels and loyalists who are so close that they scream at each other while they shoot each other. The first time on the frontline, you can’t believe it, with these bayonets you have seen only in history books. Today’s wars are drone wars, but here they fight meter by meter, street by street, and it’s fucking scary. Yet the editors back in Italy treat you like a kid; you get a front-page photo, and they say you were just lucky, in the right place at the right time. You get an exclusive story, like the one I wrote last September on Aleppo’s old city, a UNESCO World Heritage site, burning as the rebels and Syrian army battled for control. I was the first foreign reporter to enter, and the editors say: “How can I justify that my staff writer wasn’t able to enter and you were?” I got this email from an editor about that story: “I’ll buy it, but I will publish it under my staff writer’s name.”

 

A lezione di assunzione (e, coincidentalmente, rinnovamento).

“I don’t care how strong someone’s writing, reporting, editing or photography skills are, I’m not going to waste a valuable newsroom opening on a journalist who is refusing to meet the challenges of the digital age. I’ll hire a pretty good reporter, editor or photojournalist who’s learning digital tools over an excellent reporter, editor or photojournalist who’s pretending it’s still 1990.”

Steve Buttry

“Il passato non può comprarci il futuro”

Dedicato a tutti gli editori (italiani) da parte di Jon Paton, CEO di Digital First Media, durante la conferenza Global Editors Network News Summit a Parigi. Digital First Media fa 3 miliardi di dollari di profitto annuo, e possiede i gruppi editoriali numero due e tre negli Stati Uniti. Uno che sa di cosa parla, insomma.

 

We can no longer treat digital as a bolt-on to our strategy and protect the legacy business.
The past doesn’t buy our future. You can change that future if you recognize that holding onto the past doesn’t work and that you must continue to cut those legacy costs.
But only if you continue to invest in digital products, digital content, digital sales and digital infrastructure.

Investire, investire, investire. Non avere paura di spendere in innovazione per poter ancora esistere nel 2015.

 

Lo stesso coraggio è richiesto non solo agli editori, ma anche ai giornalisti.

And if you don’t see the kinds of tough decisions to cut expenses in what is not growing –print – and increased spending in what is growing – digital – then get out because your company is surely dying.

Continua a leggere qui. 

C’è un modo efficace di fare real-time journalism, e uno meno.

1 Comment

Quello efficace riesce a coinvolgere il lettore perfino su storie che, per loro natura, non stimolerebbero partecipazione attiva: un tipo di narrazione capace di distinguere il segnale dal rumore di fondo, perchè solo su un segnale condiviso è possibile comunicare.

L’e-book sul giornalismo di nuova generazione. Prossimamente qui.

“Mucha cosa!”

Era quasi un anno fa: leggevo guide e stendevo mappe sul tavolo in preparazione al mio viaggio in Peru e Bolivia.
Grazie Stefano per avermelo fatto rivivere così.