Tempo addietro mi è arrivato via mail il comunicato stampa di Youth Press Italia, associazione ggiovane di cui ho fatto parte in passato, per cui ho realizzato un servizio – senza mai aver visto il pagamento promesso – e con la quale non ero più in contatto da tempo. Il comunicato stampa inizia così:
«Abolire l’elenco dei pubblicisti dall’albo dei giornalisti rappresenterebbe un errore madornale e l’ennesimo durissimo colpo alla qualità del sistema dell’informazione italiana». Così il presidente di Youth Press Italia, l’associazione dei giovani giornalisti italiani, Simone d’Antonio, commenta la possibilità di abolizione dell’elenco dei pubblicisti, paventata dal comma 5 dell’articolo 3 del decreto legge 138/2011, che colpirebbe oltre 80mila giornalisti italiani a partire dal prossimo mese di settembre.
La ribellione di una mini-casta, quella dei paria del giornalismo. Una casta che non dà privilegi, non dà vantaggi, ma si trascina addosso solamente costi e oneri. C’è il tesserino, tuttavia. E allora si fa corporazione. Perché avere la tessera, in Italia, è uno status symbol, anche se con quella ci entri sì e no gratis alle partite di pallone.
«L’eventale approvazione di una simile misura – prosegue d’Antonio – produrrebbe una finta liberalizzazione del settore a scapito come sempre dei più deboli: precari, giovani praticanti pubblicisti e tutti coloro che non possono permettersi di pagare le costosissime iscrizioni ai master delle scuole di giornalismo, nonchè giovani giornalisti che vedrebbero peggiorare ancora di più le condizioni del proprio lavoro o non potrebbero neanche più esercitarlo legalmente”
Peggiorare? Come può peggiorare la condizione di chi ancora arriva a prendere 5 euro ad articolo lavorando per il Corriere di ******, per un netto orario (togliendo benzina e spese varie) di 0,50€ all’ora? (storia vera). Invece che salutare con gaudio un primo passo verso l’abolizione di un ordine totalmente inutile e anacronistico, fatto di privilegi, pensioni e giornalisti annoiati di mezza età che Twitter non sanno neanche pronuciarlo, la piccola castina del tesserino…
condanna fortemente questa deriva, che minaccerebbe l’intero sistema mediatico nazionale. E’ noto a tutti che più della metà dei contenuti giornalistici prodotti nel nostro paese viene realizzato da pubblicisti. Metterli fuori gioco costiturebbe un danno per tutte le redazioni e, più in generale, per quel pluralismo dell’informazione che è alla base di ogni sano sistema democratico.
Metterli fuori gioco? Ma qui non stiamo parlando di eliminazione fisica, ma dell’eliminazione di una tessera, che non inficia assolutamente la professionalità e la bravura nel produrre contenuti da parte dei piccoli giornalisti spauriti senza la tesserona. E se il sistema non li premia, beh, non è certo colpa loro, ma del sistema. E pertanto va’ cambiato il sistema.
E’ necessario continuare a tutelare la categoria nelle forme più adeguate anche per garantire sbocchi e opportunità a chi non ha avuto l’opportunità di svolgere il praticantato giornalistico da professionista, a chi sceglie di voler continuare ad operare da free-lance, ma anche a chi sta ancora completando il percorso per il conseguimento del tesserino di pubblicista e rappresenta il futuro di questa professione».
Come non detto. A parte che freelance si scrive tutto attaccato, il futuro non sta nel mantenimento di un micro-ordine interno alla casta, ma nell’apertura verso un mercato lavorativo normale, dove sia possibile sfogliare gli annunci di lavoro, essere assunti per merito (e non per l’appartenenza ad un ordine), provare, sbagliare, farsi correggere, dimostrare il proprio valore e, nella peggiore delle ipotesi, essere rimpiazzato con qualcuno più bravo o più al passo coi tempi.
Ma qui viene il bello:
Introdurre un esame di Stato anche per l’accesso all’elenco dei pubblicisti e permettere a tutti i giovani giornalisti già pubblicisti che lo vogliano di poter transitare nell’elenco dei professionisti attraverso un apposito esame rappresentano non solo le soluzioni più auspicabili ma le uniche possibili per salvaguardare conteporaneamente la qualità dell’informazione e la libertà di accesso alla professione.
Insomma, la soluzione per i ggiovani di Youth Press è quella di introdurre un’altra barriera alla professione, affinchè anche la micro-casta si senta protetta e tutelata – le rimane solo quello, visto che in pratica di altri vantaggi non ce ne sono.
Faccio chiudere a Federico Rampini, decano del giornalismo – anch’egli tesserato – ma che almeno respira un’aria diversa. Ha viaggiato, ha scoperto cosa succede dietro il campicello di casa sua e ha notato che là fuori, al di là delle alpi, il giornalismo è una professione come le altre. Dove sono i migliori ad andare avanti. Non i ggiovani che aspirano a mendicare le briciole nella stanza della loggia antica, dove i grandi si radunano e fingono simpatia verso le tenere, povere nuove generazioni.
È un male antico la sottomissione di una parte del giornalismo italiano a logiche di potere, di partito, di mafie, di cordate. [… ] Non ricordo che l’Ordine si sia distinto per la sua efficacia nel difendere giornali aggrediti e intimiditi dal potere politico, o scalati da cordate finanziarie che volevano usarli come strumenti di pressione. Non mi risulta che l’Ordine abbia scatenato campagne coraggiose contro la lottizzazione della Rai, o contro l’ascesa del monopolio di Berlusconi nella tv commerciale.
Sforzando la mia memoria non riesco a trovare un solo episodio di «mala-informazione» – notizie false, palesemente partigiane, comprate e vendute – che sia stato rivelato e punito con severità dall’Ordine.
[…]
Negli Stati Uniti non esiste un Ordine dei giornalisti. L’accesso dei giovani a questo mestiere risponde a normali logiche professionali: un mercato del lavoro esigente e competitivo seleziona su basi meritocratiche, premia i più bravi.
[…]
L’unica funzione reale dell’Ordine dei giornalisti in Italia è quella di creare una ulteriore barriera artificiosa all’ingresso nella nostra professione. Si separa chi ha il privilegio di star dentro da chi sta fuori, gli insider dagli outsider. Questa barriera è costruita attraverso un esame di accesso e altri requisiti che non misurano la competenza o la professionalità, né esercitano un qualsivoglia filtro di controllo sull’etica, la correttezza, l’indipendenza di giudizio. L’ostacolo al libero esercizio della professione crea una rigidità ulteriore sul mercato, che si aggiunge ad altre rigidità già diffuse in Italia nei rapporti di lavoro. Per i giovani italiani è più difficile diventare giornalisti.
[…] Le redazioni dominate da cinquantenni e sessantenni non sono necessariamente le più adatte per parlare alle generazioni dei loro figli o nipoti.
[…] Dalle banche alle assicurazioni, dai trasporti all’energia, dai servizi municipali ai notai e ai farmacisti, non c’è un solo caso in cui l’esistenza di monopoli, oligopoli, lobby e corporazioni abbia portato dei benefici alla collettività. La corporazione dei giornalisti non fa eccezione.
I privilegi, anche quando sono piccoli, sono sempre privilegi: diminuiscono la credibilità morale e l’autorità di chi ne trae profitto.
La cultura delle regole, lo Stato di diritto, la società aperta, si difendono non con i sermoni ma con i comportamenti.L’Ordine dei giornalisti merita una sepoltura veloce e senza rimpianti. La sua soppressione non guarirà di per sé l’antico vizio di una parte del giornalismo italiano di lavorare «in ginocchio». Non scompariranno per miracolo il servilismo, l’opportunismo, la faziosità, la pigrizia o la viltà. Ma se non altro senza l’Ordine diventerà un po’ meno difficile praticare questo mestiere per quei giovani che hanno grinta, talento, idee da far valere.