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In Brasile è d’obbligo insegnare Socrate e Platone

Dal 2008 in Brasile è obbligatorio l’insegnamento della filosofia nelle scuole superiori.

‘Uscire dalla caverna per vedere come stanno realmente le cose: è di questo che in fondo si tratta’.

Carlos Fraenkel ha pubblicato per il Boston Review uno stupendo reportage da Itapuã, la città più nera del Brasile, dove la gente prega nelle parrocchie pentecostali o adora divinità africane, la droga è diffusa come un morbo e gli studenti tra il crack e l’istruzione spesso scelgono il primo. Nel paese in cui – mi sto limitando a tradurre: data la bellezza dell’articolo, non posso fare altro – il calcio è una delle poche pratiche democratiche, in cui l’ascesa non dipende da privilegi di classe ma puramente dal merito, il governo di Lula ha reso obbligatorio l’insegnamento della filosofia per almeno tre anni. Nove milioni di ragazzi discutono di Platone e Kant. Nove milioni di loro avranno più chances non solo di essere strappati dalla strada, ma di votare più consapevolmente.

Nel 1971, la dittatura militare che governava il paese dal 1964 aveva eliminato la filosofia dalle scuole. Il paese fu l’ultimo ad abolire la schiavitù in America nel 1888. Nel 2010, la maggioranza dei voti ad un membro del Congresso andò a Tiririca, un popolare clown televisivo, che si presentò con lo slogan: “Non so quello che fa il Congresso, ma votatemi e ve lo dirò.” E’ anche per evitare questo che si parla di Etica della Ragion Pura a scuola.

Andrew Sullivan sul Daily Beast cita uno dei punti più belli dell’articolo di Frankael:

To build politics on a foundation of philosophy, Plato concludes, doesn’t mean turning all citizens into philosophers, but putting true philosophers in charge of the city—like parents in charge of children. I wonder, though, why Plato didn’t consider the alternative: If citizens had been trained in dialectic debate from early on—say, starting in high school—might they have reacted differently to Socrates? Perhaps the Brazilian experiment will tell.

Tutto questo fa parte di una serie di politiche sociali per riportare i bambini a scuola: pranzi gratuiti, sussidi per il bus e per le famiglie che decidono di tenere i propri figli in classe. La bolsa familia (family fund) aiuta circa 12 milioni famiglie in stato di povertà a sperare che i pargoli abbiano un futuro migliori dei padri. In Argentina politiche simili passate dai Kircher (Asignación Universal por Hijo) offrono aiuti economici alle famiglie di poveri o disoccupati che decidono di far vaccinare i propri bambini e di mantenerli iscritti a scuola.

Dopo anni di sfascio all’istruzione pubblica e all’università, è bene lasciarci alle spalle il mantra delle tre I – internet, inglese e impresa –a tutti i costi, tornando ad assaporare la luce del sole dopo la caverna.

Governi tecnici e politici. Governi del fare e governi dello speculare. Per re-imparare a fare politica a partire dall’etica è bene non abbassare mai la guardia.

Delle tre I, i trogloditi in genere non sanno in genere che farsene. Il Brasile, con le sue poverissime favelas, può insegnare.

Da grande voglio guadagnarmi da vivere proprio come lei

Questa signora, Layne Mosler, è un genio. Non perchè abbia inventato chissà che, ma semplicemente perchè è diventata famosa mangiando bene.

taxi gourmet buenos aires

Sale su un taxi, chiede al tassista quale è il ristorante migliore per una buona bistecca, ci va’, magna e ne scrive. Facile. Quello che tutti noi abbiamo fatto almeno una volta nella vita, senza tuttavia essere riusciti ad essere menzionati da ABC NewsMSNBCThe New York TimesThe Wall Street JournalThe Washington PostThe Guardian etc.

“An approach to culinary exploration that is guided by the wisdom of cabbies.”

E tutto ha avuto inizio qui a Bs As.

ARGH, che invidia. 

Pure i giovani (?) giornalisti ora fanno casta?

4 Comments

Tempo addietro mi è arrivato via mail il comunicato stampa di Youth Press Italia, associazione ggiovane di cui ho fatto parte in passato, per cui ho realizzato un servizio – senza mai aver visto il pagamento promesso – e con la quale non ero più in contatto da tempo. Il comunicato stampa inizia così:

«Abolire l’elenco dei pubblicisti dall’albo dei giornalisti rappresenterebbe un errore madornale e l’ennesimo durissimo colpo alla qualità del sistema dell’informazione italiana». Così il presidente di Youth Press Italia, l’associazione dei giovani giornalisti italiani, Simone d’Antonio, commenta la possibilità di abolizione dell’elenco dei pubblicisti, paventata dal comma 5 dell’articolo 3 del decreto legge 138/2011, che colpirebbe oltre 80mila giornalisti italiani a partire dal prossimo mese di settembre.

La ribellione di una mini-casta, quella dei paria del giornalismo. Una casta che non dà privilegi, non dà vantaggi, ma si trascina addosso solamente costi e oneri. C’è il tesserino, tuttavia. E allora si fa corporazione. Perché avere la tessera, in Italia, è uno status symbol, anche se con quella ci entri sì e no gratis alle partite di pallone.

«L’eventale approvazione di una simile misura – prosegue d’Antonio – produrrebbe una finta liberalizzazione del settore a scapito come sempre dei più deboli: precari, giovani praticanti pubblicisti e tutti coloro che non possono permettersi di pagare le costosissime iscrizioni ai master delle scuole di giornalismo, nonchè giovani giornalisti che vedrebbero peggiorare ancora di più le condizioni del proprio lavoro o non potrebbero neanche più esercitarlo legalmente”

Peggiorare? Come può peggiorare la condizione di chi ancora arriva a prendere 5 euro ad articolo lavorando per il Corriere di ******, per un netto orario (togliendo benzina e spese varie) di 0,50€ all’ora? (storia vera). Invece che salutare con gaudio un primo passo verso l’abolizione di un ordine totalmente inutile e anacronistico, fatto di privilegi, pensioni e giornalisti annoiati di mezza età che Twitter non sanno neanche pronuciarlo, la piccola castina del tesserino…

condanna fortemente questa deriva, che minaccerebbe l’intero sistema mediatico nazionale. E’ noto a tutti che più della metà dei contenuti giornalistici prodotti nel nostro paese viene realizzato da pubblicisti. Metterli fuori gioco costiturebbe un danno per tutte le redazioni e, più in generale, per quel pluralismo dell’informazione che è alla base di ogni sano sistema democratico.

Metterli fuori gioco? Ma qui non stiamo parlando di eliminazione fisica, ma dell’eliminazione di una tessera, che non inficia assolutamente la professionalità e la bravura nel produrre contenuti da parte dei piccoli giornalisti spauriti senza la tesserona. E se il sistema non li premia, beh, non è certo colpa loro, ma del sistema. E pertanto va’ cambiato il sistema.

E’ necessario continuare a tutelare la categoria nelle forme più adeguate anche per garantire sbocchi e opportunità a chi non ha avuto l’opportunità di svolgere il praticantato giornalistico da professionista, a chi sceglie di voler continuare ad operare da free-lance, ma anche a chi sta ancora completando il percorso per il conseguimento del tesserino di pubblicista e rappresenta il futuro di questa professione».

Come non detto. A parte che freelance si scrive tutto attaccato, il futuro non sta nel mantenimento di un micro-ordine interno alla casta, ma nell’apertura verso un mercato lavorativo normale, dove sia possibile sfogliare gli annunci di lavoro, essere assunti per merito (e non per l’appartenenza ad un ordine), provare, sbagliare, farsi correggere, dimostrare il proprio valore e, nella peggiore delle ipotesi, essere rimpiazzato con qualcuno più bravo o più al passo coi tempi.

Ma qui viene il bello:

Introdurre un esame di Stato anche per l’accesso all’elenco dei pubblicisti e permettere a tutti i giovani giornalisti già pubblicisti che lo vogliano di poter transitare nell’elenco dei professionisti attraverso un apposito esame rappresentano non solo le soluzioni più auspicabili ma le uniche possibili per salvaguardare conteporaneamente la qualità dell’informazione e la libertà di accesso alla professione.

Insomma, la soluzione per i ggiovani di Youth Press è quella di introdurre un’altra barriera alla professione, affinchè anche la micro-casta si senta protetta e tutelata – le rimane solo quello, visto che in pratica di altri vantaggi non ce ne sono.

Faccio chiudere a Federico Rampini, decano del giornalismo – anch’egli tesserato – ma che almeno respira un’aria diversa. Ha viaggiato, ha scoperto cosa succede dietro il campicello di casa sua e ha notato che là fuori, al di là delle alpi, il giornalismo è una professione come le altre. Dove sono i migliori ad andare avanti. Non i ggiovani che aspirano a mendicare le briciole nella stanza della loggia antica, dove i grandi si radunano e fingono simpatia verso le tenere, povere nuove generazioni.

È un male antico la sottomissione di una parte del giornalismo italiano a logiche di potere, di partito, di mafie, di cordate. [… ] Non ricordo che l’Ordine si sia distinto per la sua efficacia nel difendere giornali aggrediti e intimiditi dal potere politico, o scalati da cordate finanziarie che volevano usarli come strumenti di pressione. Non mi risulta che l’Ordine abbia scatenato campagne coraggiose contro la lottizzazione della Rai, o contro l’ascesa del monopolio di Berlusconi nella tv commerciale.
Sforzando la mia memoria non riesco a trovare un solo episodio di «mala-informazione» – notizie false, palesemente partigiane, comprate e vendute – che sia stato rivelato e punito con severità dall’Ordine.

[…]

Negli Stati Uniti non esiste un Ordine dei giornalisti. L’accesso dei giovani a questo mestiere risponde a normali logiche professionali: un mercato del lavoro esigente e competitivo seleziona su basi meritocratiche, premia i più bravi.

[…]

L’unica funzione reale dell’Ordine dei giornalisti in Italia è quella di creare una ulteriore barriera artificiosa all’ingresso nella nostra professione. Si separa chi ha il privilegio di star dentro da chi sta fuori, gli insider dagli outsider. Questa barriera è costruita attraverso un esame di accesso e altri requisiti che non misurano la competenza o la professionalità, né esercitano un qualsivoglia filtro di controllo sull’etica, la correttezza, l’indipendenza di giudizio. L’ostacolo al libero esercizio della professione crea una rigidità ulteriore sul mercato, che si aggiunge ad altre rigidità già diffuse in Italia nei rapporti di lavoro. Per i giovani italiani è più difficile diventare giornalisti.
[…] Le redazioni dominate da cinquantenni e sessantenni non sono necessariamente le più adatte per parlare alle generazioni dei loro figli o nipoti.

[…] Dalle banche alle assicurazioni, dai trasporti all’energia, dai servizi municipali ai notai e ai farmacisti, non c’è un solo caso in cui l’esistenza di monopoli, oligopoli, lobby e corporazioni abbia portato dei benefici alla collettività. La corporazione dei giornalisti non fa eccezione.

I privilegi, anche quando sono piccoli, sono sempre privilegi: diminuiscono la credibilità morale e l’autorità di chi ne trae profitto.

La cultura delle regole, lo Stato di diritto, la società aperta, si difendono non con i sermoni ma con i comportamenti.L’Ordine dei giornalisti merita una sepoltura veloce e senza rimpianti. La sua soppressione non guarirà di per sé l’antico vizio di una parte del giornalismo italiano di lavorare «in ginocchio». Non scompariranno per miracolo il servilismo, l’opportunismo, la faziosità, la pigrizia o la viltà. Ma se non altro senza l’Ordine diventerà un po’ meno difficile praticare questo mestiere per quei giovani che hanno grinta, talento, idee da far valere.

La conoscenza della propria anatomia è forse un male per la salute?

Un articolo geniale uscito sul magazine della BBC che svela perchè noi italiani siamo colpiti dal male alla cervicale e molto altro.

È importante per gli italiani tenere il collo al caldo per stare bene. Molti italiani, sembrerebbe, sono esposti ad una serie particolarmente estesa di malattie invernali, supportata da una conoscenza approfondita dell’anatomia umana.
Vivere in questa nazione per più di un decennio mi ha portato ad una conclusione scioccante. Essere italiano fa male alla salute.

Con l’avvicinarsi dell’inverno, mi vedo persone intorno che soffrono di una serie di malanni distintamente italiani, che fanno sembrare i limitati raffreddori e influenze britannici insipidi tanto quanto il nostro cibo.
Mentre in bicicletta giro per le strade medievali della mia città adottiva, Bologna, sorrido tra me e me, meravigliandomi del fatto che sto ancora indossando una giacchetta leggera in questo periodo dell’anno.

Nessuna traduzione
I miei compagni italiani sono meno fortunati. Hanno le loro sciarpe di lana e cappotti pesanti e si avvolgono fino al collo, lamentandosi della malattia misteriosa italiana da me preferita, “la cervicale”.
“Soffro di cervicale” (in italiano nel testo, N.d.T), mi dicono, facendola sembrare una cosa particolarmente seria.
La maggior parte delle persone sopra i 30 sembra soffrire di questa malattia, ma ancora non riesco a capire di cosa si tratta esattamente e come tradurlo in inglese.
L’ho cercato sul dizionario e ho trovato “cervical”, un aggettivo che si riferisce alla vertebra cervicale, quelle piccole ossa che sono dietro al collo, ma come malanno non se ne trova alcuna traduzione in inglese. Non l’abbiamo! I britannici non sembrano avere neanche l’eccezionale conoscenza della propria anatomia che possiedono invece gli italiani.

Il vantaggio dell’ignoranza
Poco dopo essermi trasferito qui, ricordo che un amico un giorno mi disse che non si sentiva molto bene. “Mi fa male il fegato” disse. Da allora sono stato rassicurato più volte dai medici che non si può in effetti sentire il proprio fegato, ma quello che mi colpì maggiormente fu il fatto che il mio amico sapeva dove fosse il fegato.

[Continua a leggere in traduzione su Italiadallestero.info]

Le voci ribelli della canzone italiana

Leggendo l’articolo sulle voci dimenticate della canzone italiana pubblicato sul settimanale francese Telerama, vengono in mente le parole del giornalista Francesco Merlo quando parla di tutt’altro, e cioè del piegarsi di Mario Monti “allo stanco rituale televisivo della terza camera”Porta a Porta.

Il salotto buono del cortigiano Vespa, dove è stata “confezionata più politica berlusconiana di quanto ne produceva la Camera dei Deputati dove non succedeva nulla”, sta infatti alla politica italiana come Sanremo sta alla musica. E se “c’è in generale un che di terzo mondo in un paese dove l’istituzione più venerata dai politici […] è il talk-show lottizzato”, c’è parimenti un che di terzo mondo in un paese in cui il pianista più riverito – come scrive Anne Berthod – è Giovanni Allevi.

Uno che, scoperto da Jovanotti, in una recente intervista anziché rispondere ad una domanda, “decidedi dire che quel rintocco di campana, quello lì che sta sotto le loro parole in quell’istante, di fronte alle telecamere, è un Fa. Dice così, questo è un Fa, lo dice due volte. Ma è un Mi.” (Grazie a Matteo Bordone)

ARTICOLO DISPONIBILE QUI, SUL FATTO QUOTIDIANO. TRADUZIONE DI ITALIADALLESTERO.INFO

 

– London Talking e il diritto del lavoro in UK –

Puntatona sul futuro del diritto del lavoro inglese. La fonte è questo articolo dell’Independent segnalato anche da Internazionale.

La frequenza è sempre quella: 103.1 per i bolognesi, in diretta streaming domani dalle 11,30 in poi su Radio Città Fujiko’s website.

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