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Cosa accade quando finiscono i selfie

L’altra sera  ho visitato il cimitero degli elefanti del narcisismo, un luogo che fa delle due pestilenziali epidemie del nuovo millennio – l’autoscatto  e il food selfie – la propria ragion d’essere.

L’altra sera sono stato alla Cena in Bianco, e ne sono uscito con le ossa rotte. Vivo, ma con le ossa rotte.

Tratta dal sito ufficiale della manifestazione
Tratta dal sito ufficiale della manifestazione

Di cosa si tratta in linea teorica lo spiegano gli organizzatori, qui:

Vestiamo tutti insieme di bianco una piazza, una strada un giardino, un luogo a sorpresa ogni volta diverso delle nostre città e paesi, trasformandolo in una “camera da pranzo” a cielo aperto. Come? Ognuno di noi si porta tutto da casa, tavolo, sedie, vivande, stoviglie in ceramica, bicchieri di vetro… niente carta e niente plastica. Apparecchia e imbandisce la propria tavola con amici, familiari, colleghi, nonni e bambini per vivere l’emozione di una Cena tutti insieme per strada all’insegna delle cinque grandi E di etica, estetica, ecologia, educazione, eleganza.  Una immensa tavola, fatta di tutte le nostre tavole vicine e in fila, che celebra la tradizione italiana a tavola, nel rispetto di condivisione, convivialità, piacere di stare insieme. Riviviamo la magia del territorio con una cena urbana che attraverso il colore bianco, il più neutro e il più fotografico dei colori, veicolerà grazie alle nostre foto le immagini dei tanti luoghi del nostro bel paese in rete… Bello sarà partire con tavoli piatti e sedie al seguito per vivere e scoprire le piazze e le strade di tanti luoghi italiani… E alla fine della serata ognuno sparecchia, porta via tutti i rifiuti: non deve rimanere traccia del nostro passaggio. C’è un solo modo per mantenere pulite le nostre città: non sporcarle.

Di cosa si tratta davvero, ve lo spiega un sopravvissuto.

 

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L’ALBUM FOTOGRAFICO

Una cosa divertente che rifarò

Quest’anno sono stato per la prima volta al Carnevale di Ivrea (per chi non sa cosa si tratti, rimando a questa splendida puntata di Pif che mi ha caricato a molla la settimana prima di andare).

E’ stata forse l’esperienza più bella della mia vita – e chi mi conosce sa della mia scarsissima propensione all’iperbole… …
Diciamo che in una scala da uno a sesso, il Carnevale di Ivrea si colloca oltre la prima posizione, e batte ogni altra possibile esperienza umana ad eccezione, forse, del Paintball.

E’ stata un’epifania dello spirito, una giornata fuori dallo spazio e dal tempo conosciuto, tra pifferai che intonano storiche nenie di battaglia, tamburi, striscioni, coriandoli e arance. Tonnellate di arance.
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Ciò che lo rende speciale, a parte la follia della battaglia in sè, e l’assoluta convinzione di massa di partecipare ad una liturgia laica unica ed imprescindibile. L’aria di attesa che si respira prima della battaglia è densa, pesante, ricca di cavalieri che fischiettano per ingannare la tensione; aranceri che si battono il petto e che si riscaldano prima di gettarsi nella mischia; sguardi fissi nel vuoto per racimolare tutte le energie a pochi minuti dallo scontro, insulti sberleffi e canti corali.

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Poi, all’improvviso, è il delirio. Stare in mezzo a migliaia di sassi arancioni che ti fischiano vicino alle orecchie, missili che raccontano di una tradizione tanto unica  quanto irriducibile, è una scarica di adrenalina difficile da provare altrove in questa parte del mondo.

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Scattare foto lì in mezzo ti fa sentire come un reporter di guerra, in missione per conto del Vero. Essere parte di questa follia collettiva vuol dire lasciarsi ogni altra cosa alle spalle, perchè ogni distrazione può essere fatale.
Essere parte di questa splendida follia vuol dire ritornare alle radici, da cui ogni giorno ci allontana inesorabile tutta la tecnologia di cui ci circondiamo per evitare l’horror vacui.

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Stare lì in mezzo, ad esaltarsi e tifare per una squadra o per l’altra, ad annuire quando gli aranceri di un colore applaudono gli avversari e concedono loro l’onore delle arance, ci fa tornare in contatto con la parte migliore della nostra umanità.

Anche questo è il Carnevale di Ivrea.

carnevale ivrea 2015 lillo montalto monella

Se volete vedere tutte le foto che ho scattato quel giorno, le trovate qui. Tutta questa manfrina per dirvi solamente: andatevele a vedere, ne vado molto orgoglioso.

 

Quante persone servono per rinnovare una patente?

La risposta è almeno tre. Una di queste tuttavia non è colui che deve rinnovarla.

rinnovo patente asl

Succede oggi in una ASL locale, in cui mi reco sotto il diluvio per la “visita in attività istituzionale” di rinnovo della patente. Come ben sa chi segue questo blog da tempo, infatti, il documento mi scade il 29 novembre 2014 (già, sono passati dieci anni e ancora paio lo stesso giuovincello di un tempo…).

Effettuata la chiamata di prenotazione nella ragionevole finestra temporale di sei ore settimanali – il telefono, pubblico, squilla solo il lunedì, mercoledì, venerdì dalle 14 alle 16 – e fissato il mio appuntamento, riesco ad infilarmi nella ancor più esigua finestra temporale in cui si effettuano le visite per il “Rilascio patenti A-B-C-D-E-KA-KB” e a presentarmi, infine, al tanto atteso rendez-vous.

Piove che Dio la manda e sono in ritardo di dieci minuti.

Parcheggio di fuori con la doppia freccia tra un cancello, una striscia blu e un posto disabili che, se dovessi mai uscire dalla ASL abile e certificato, perderei comunque la patente per l’ammontare di infrazioni commesse in una sola manovra di parcheggio.

Trovo finalmente l’ufficio e, ad accogliermi, tre affabili signore schierate in mia attesa come le mitologiche Parche, Cloto, Lachesi e Atropo. Sono l’ultimo appuntamento della giornata, e dalla mia puntualità dipende evidentemente l’orario di timbratura del cartellino d’uscita.

A farmelo notare, il “Mbe? Avevamo perso la speranza” con il quale mi accolgono.

Mi accomodo, adducendo qualche scusa di circostanza.

La prima domanda riguarda i bollettini di pagamento e la foto tessera. Ce li ho. Presento tutto con fare zelante, quasi orgoglioso di non essere stato colto in fallo per una volta, e attendo.
Una di loro, Cloto, mi chiede se sto bene.
Deve essere quella che ha sostenuto più esami di medicina, dico fra me e me, e rispondo che non posso lamentarmi – se escludiamo il tempo.
“Porta gli occhiali?”
“No”, rispondo lapalissiano.
A questo punto le altre due comari iniziano ad armeggiare con le mie scartoffie. Una di esse alza e abbassa lo scanner, lo aziona, attende, lo aziona nuovamente con una smorfia contrita. Ecco! funziona.
Quell’altra mi porge un modulo da firmare ma ATTENZIONE che la firma non esca fuori dal rettangolo: “se no qui ci stiamo tutta la notte, glielo assicuro”. 
Falsifico la mia firma al meglio per esaudire la richiesta, visto che  avevo già preso un impegno dal dentista per le ore successive, e questa annuisce con aria soddisfatta. Ancora non sa di aver cantato vittoria troppo presto.

Una di loro sorveglia la scena in piedi, con aria inesorabile: è Atropo. Si assicura che tutto vada per il verso giusto.
Lachesi – la più anziana delle tre, forte accento meridionale – è quella deputata all’elettronica, e cerca sulla tastiera del computer “la freccetta” per inserire qualche dato correttamente.
Panico.
Il panico rientra: si scopre che la freccetta in questione è in realtà il tasto SHIFT.
“Metti solo Montalto che facciamo prima”
“Ma signora, ho due cognomi, mi chiamo Montalto Monella….”
“Si si tranquillo, dobbiamo solo rinominare la foto…”
Mi rilasso, anche se odo distintamente i clacson fuori che strombazzano – forse all’indirizzo della mia macchina.

Anche io ho cantato vittoria troppo presto. 
Il sistema informatico ci tradisce tutti, tutti e quattro, e a quanto pare “ci butta fuori”. Password errata.
Due delle tre donne davanti a me si stringono ai lati della malcapitata alle tastiere e l’aiutano dettandole due password. Diverse.
Nel frattempo, per non farmi sentire a disagio, Cloto mi chiede di nuovo se “ho la prescrizione per gli occhiali”. Rispondo nuovamente di no.
Lachesi, colei che regge le fila della mia pratica online, è evidentemente in difficoltà. Ad un certo punto si alza ed esclama: “Scusate, non ce la faccio, perdo il treno”
Con passo deciso, si alza si infila il giubbotto e si avvia fuori dalla porta.  I clacson di fuori sono più forti che mai. Nella stanza, sospiri carichi di tensione.
“Ma non è possibile, non ci credo…”
Atropo, l’inflessibile, si siede in postazione e decide di prendere in mano la situazione. Alza la cornetta per farsi dire da qualcuno lì fuori nell’universo la password corretta.
“Che dio ce la mandi buona”, esclama tra sè e sè, in maniera ben udibile.

BINGO. La password è quella giusta, la procedura viene riavviata. Nuova scansione dei miei documenti, accompagnata dalla nuova domanda “Porta gli occhiali?”. Questa volta mi viene richiesto anche se ho il diabete.
Nego, spudorato.
Nella borsa di Cloto intanto fa BLING un cellulare. Lei si alza, va a controllare, risponde all’SMS e torna a sedersi.
C’è un nuovo problema, però: la foto all’interno del computer supera la larghezza massima consentita.
“Dobbiamo scansionare di nuovo”, esclama la prima delle Parche come se dovesse eseguire un’operazione a cuore aperto.
Sono già passati 15 minuti, e inizio a sudare freddo.

La porta si spalanca. E’ Lachesi che torna, aveva dimenticato l’ombrello. Con la stessa fugacità con cui arriva la morte, lei afferra l’oggetto e si dilegua. Cloto, nel frattempo, si lancia ad aiutare un gentiluomo che sosta fuori dalla porta indicandogli quali bollettini pagare nella vicina posta, sempre più multitasking.

Scopro che una di loro deve timbrare alle 16,15. Mancano pochi minuti, è una corsa contro il tempo.

In quel momento, la tensione si scioglie (accompagnata da un altro BLING del cellulare di Cloto): “ODDIO ME L’HA PRESA! Se no dovevamo stare qui fino a stasera, glielo assicuro!”

Si aziona la stampante. Ecco che dalle bocche dell’Averno escono finalmente i miei moduli. Un timbro e via, sono libero.
Afferro il libro che porto con me e, mentre esco da quell’ufficio, mi pare di scorgere il pannello luminoso grazie al quale, normalmente, viene misurata la vista. Nessuno si è accorto nè della sua presenza durante tutta la procedura, nè della mia.

Tornato in macchina, getto il libro sul sedile laterale, sospirando di sollievo per aver evitato una multa potenzialmente fatale.
Tutto è andato bene, sono stato fortunato a non incappare in uno di quei fastidiosi attacchi epilettici che solitamente mi tormentano, e la vista non mi si è annebbiata all’improvviso come talvolta accade.

Prima di tornare a casa, butto un occhio sul titolo del libro. 

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Nulla accade casualmente nell’universo.

Mi faccio crescere i baffi per soldi

Proprio così. Per il terzo anno consecutivo per tutto il mese di novembre mi farò crescere i baffi per soldi. Perchè?

PER SOSTENERE UNA BUONA CAUSA
Un mese di totale repulsione sessuale – che si aggiunge a quella provocata all’altrui sesso nei 28 anni passati – è forse il prezzo da pagare per fare beneficienza? Forse no, ma sono troppo pigro e indolente per fare altro. Un’attività in cui l’unica fatica richiesta è la berlina pubblica ben si sposa con l’assenza di qualsivoglia senso del pudore che mi contraddistingue.
Quale buona causa? La sensibilizzazione e la raccolta fondi per la lotta ad alcune patologie come il cancro alla prostata e ai testicoli. 

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NON CAPISCO LA CONNESSIONE TRA IL BAFFO E LA PROSTATA
Nessuna connessione apparente. Ma fate attenzione.
Il baffo è simbolo ambivalente di virilità dileggiata ed anelata. I Mo Bros – i fratelli di baffo – sanno vivere una vita lieve, ironica e scanzonata; piegano gli accidenti dell’esistenza al loro volere con la stessa nonchalance con la quale si arricciano la punta del mustacchio; superiori alle contumelie, profeti di una mascolinità perduta e di un savoir-faire che vive ahimè solamente nei manuali di stile ottocenteschi, i Mo Bros si salutano con un lieve cenno d’intesa in metropolitana, e scambiano impercettibili segni di assenso alla perfezione della curata peluria che ne intarsia il viso.

Il baffo è apice nobile della mascolinità, il cui gambo portante è di facile intuizione, e che a sua volta ricava i suoi nutrienti essenziali dalla eccellentissima ghiandola prostatica.

Ebbene, a Movember, ogni fibra del corpo maschile è solidale, e quella stessa comunanza si ritrova tra fratelli di baffo, d’animo naturalmente nobile e altruista.

UN MASCHIO TORMENTATO E NOSTALGICO
“Il baffo del 21esimo secolo gioca con questa eredità conflittuale. E’ notoriamente ridicolo, quasi fosse un capo di vestiario distinto e semi-permanente, un sopracciglio alzato al mondo. Allo stesso tempo, tuttavia, esprime un anelito verso l’autenticità, in ricordo di un tempo in cui gli uomini sapevano esattamente cosa era loro richiesto, e questa peluria naturale (come quella femminile) è riuscita a farsi strada senza l’ostacolo della convenzione sociale””Forse, quindi, il baffo esprime  — o forse addirittura risolve? — due istinti mascolini contrapposti. E’ al contempo leggero, come una piuma, e dannatamente onesto. Il maschio di Movember è tormentato dalla nostalgia per quei giorni in cui era sicuro del proprio posto nel mondo, e forse fatica a prendersi sul serio. Ma è sincero nella sua solidarietà con i suoi fratelli maschi, pronto a farsi vulnerabile, aperto a conversazioni emozionali. Pronto a imparare dalle sue sorelle femministe” (tratto da qui)

MI HAI CONVINTO. COME FUNZIONA, QUINDI?
Spiega bene Il Posts che per partecipare a Movember (dall’inglese, crasi tra “November” e “Moustache”) è necessaria per prima cosa radersi barba o baffi; “poi registrarsi e personalizzare la pagina di “Mo space”, postare una foto al giorno sulla propria pagina (per vedere l’evolversi della crescita dei baffi) e poi, a seguire, parlare della salute maschile, trovare altri sostenitori, sventolare la bandiera del Movember e diventare una specie di pubblicità ambulante per l’iniziativa. Sempre sul sito è possibile andare a vedere quali programmi saranno finanziati dai soldi raccolti”.Questa la mia pagina personale:  MOBRO.CO/lillo, da dove è possibile effettuare le donazioni.
Non c’è bisogno di aggiungere altro.  

“Rispondo alla sfida, e nomino stocazzo”

Per mia grande sciagura sono stato nominato su Facebook per enumerare i dieci libri che mi hanno cambiato la vita. Purtroppo, il mio amico Vincenzo mi ha battuto sul tempo nel nominare i seguenti:

1)Le origini storiche dell’Ice Bucked Challenge – Matteo Renzi
2) Le metamorfosi di Ovidio, Commentate – Flavia Vento
3)Vari bandi Leonardo e offerte di stage – European Commission, altri
4) Biscotto del Cucciolone, lato A – Algida (ma io l’ho sempre letto nelle edizioni ELDORADO. Bellissimo anche il seguito, lato B, che vale come 5)
6)The Quran, a different perspective – Laden, Osama bin
7) Etichetta del maglioncino di Zara per lavaggio a mano\secco\lavatrice\centrifuga – Zara SPA (tuttora grandi difficoltà a capirlo interamente)
8) E’ lui o non è lui – Ezio Greggio
9) Una storia italiana – Fabrizio Corona
10)La mia autobiografia non ufficiale

Quindi mi tocca fare il serio, e affrontare questa disfida con grave cipiglio. Ecco, pertanto, la mia personale classifica, in ordine sparso. Non solo libri, ma esperienze di parole che hanno contribuito a cambiarmi esistenza:

1) Valerio Massimo Manfredi – ALEXANDROS, LA TRILOGIA 

Non so come sia capitata nella mia cameretta, ma un giorno che forse andavo alle medie ho aperto il primo tomo un po’ scettico. E ho iniziato a sognare. Ha plagiato così tanto il mio immaginario che nei mesi successivi (o precedenti? chissà, i ricordi sono sempre così poco fedeli alla realtà delle cose), ho passato gran parte del mio tempo a disegnare soldatini romani, cartaginesi e greci in combattimento tra loro, rievocando in maniera autistica – su un foglio di carta – le battaglie che avevo immaginato immerso nella prosa turgida e magniloquente di Manfredi.

2) Fëdor Dostoevskij, DELITTO E CASTIGO

Divorato a bordo piscina in meno di un mese, in una fantastica estate di cui non mi ricordo nulla, ma proprio nulla se non le avventure di Rodion Romanovič Raskol’nikov.

3) Sergio Bonelli Editore – TEX WILLER / Tiziano Sclavi – DYLAN DOG

La mia tesi delle scuole superiori è stata incentrata sul rapporto tra il postmoderno in letteratura e Dylan Dog. Quindi ho scelto Bologna, anche perchè lì viveva e operava Umberto Eco: come il protagonista del suo La misteriosa fiamma della regina Loana, sogno un giorno di trasferirmi nelle Langhe, aprire un baule di vecchi ricordi e dimenticarmi del mondo in compagnia degli eroi della mia infanzia.

4) Gabriel Garcia Marquez – CENT’ANNI DI SOLITUDINE 

Proprio in questa versione, comprato in inglese e in Australia su consiglio di uno dei miei più grandi amici. Non è in questa classifica per gli indubbi meriti letterari, bensì per il ricordo ad esso legato: un ricordo fatto di terra straniera, amicizie, lunghi periodi di solitudine e bookcrossing in hotel sgangherati.

5) John Irving – THE WORLD ACCORDING TO GARP 

Me lo lanciò un irlandese sciancato in un pub scalcinato di Melbourne. Lo presi al volo, e me lo portai nel deserto.  Non l’ho più riletto, ma se ve lo consiglio, sappiate che sto cercando di portarvi a letto.

6) L’ESPRESSO, a Como, ad ogni risveglio

Perchè nulla ti cambia più della routine giornaliera. Ed essere abbonati in famiglia ad un giornale di sinistra da tutta una vita ha sicuramente influenzato la mia esistenza. In primis, Satira Preventiva di Michele Serra (che ritengo ad oggi il suo più alto prodotto letterario) e La Bustina di Minerva, le prime due rubriche che corro solitamente a divorarmi, assieme alla colazione.

e 7) Mario Vargas Llosa – LA CIUDAD Y LOS PERROS 

Non certo il libro più bello che abbia mai letto, ma la più grande fatica della mia vita: opera maestra in spagnolo, lingua a me nuova al tempo, mi ha fatto compagnia tra i monti dell’Apurimac, nel ‘suo’ Peru, e tra le tortuose strade boliviane. Innumerevoli le frasi di cui non ho capito nulla, impagabile la sensazione di essere arrivato in fondo.

8) Carlos Ruiz Zafón – LA SOMBRA DEL VIENTO 

Perchè in questi momenti, quando ho finito il libro…

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… ho pensato: ne è quasi valsa la pena rompersi la gamba per finire a Barcellona e farsi consigliare questo capolavoro. Poi mi hanno dato la morfina.

9) Philip Roth, PASTORALE AMERICANA 

La mia tesi di laurea specialistica, e l’unico libro che abbia mai letto più di una volta, probabilmente, visto che soffro di una particolare ansia enciclopedica che mi spinge a sacrificare il piacere della rilettura per l’affanno da scoperta.

“In ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati”. (grazie Virgi per avermi ricordato la bellezza)

10) Arthur Conan Doyle, SHERLOCK HOLMES, TUTTI I LIBRI. 

Di nuovo, l’infanzia. Peccato fermarsi a 10: il MICHELE STROGOFF di Jules Verne (assieme a tutti i suoi romanzi) seguiva a ruota.

Come il Risiko mi ha salvato la vita (-6)

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Domenica pomeriggio, mentre andavo per i trent’anni, mi sono messo una camicia, una giacca elegante ed un papillon dai colori confetto, rosso e blu. Mi sono aggiustato le maniche, e mi sono diretto a casa del mio migliore amico per un importante Risiko di gala.

risiko di gala

Lì, ad aspettarmi, c’erano altri tre pinguini vestiti di tutto punto, con tanto di pochette di pizzo, farfallino, cravatta rossa e spillona sovietica. Per circa tre ore, siamo tornati a vivere in un un mondo fatto di carri armati e territori da conquistare al valente lancio di dadi. Abbiamo tracciato una linea: al di qua da essa stavamo noi, nel nostro orgoglio gessato; al di là da essa il resto del mondo.

In questo modo, vestiti di tutto punto, abbiamo reso omaggio alle nostre amicizie ma soprattutto ad un gioco che ha contribuito a salvarci la vita in tutti questi anni. Abbiamo rivendicato con orgoglio il nostro passato nerd, e ribadito che quello era il nostro presente e sarebbe sempre stato il nostro futuro.

Per anni, in quel periodo miliare per la formazione umana chiamato adolescenza, dadi di varie forme e colori sono stati le nostre iniezioni di endorfina quotidiane. Che andassimo alla conquista della Kamchatka, sconfiggessimo dei coboldi asserragliati in una caverna o simulassimo epiche battaglie con delle pistole giocattolo, abbiamo vissuto “in un mondo fittizio che esisteva solo nella immaginazione condivisa di tutti coloro che prendevano parte al gioco”. Un mondo irreale che ci ha dato gli strumenti per sopravvivere in quello tangibile.

Il titolo e il virgolettato di cui sopra ammiccano alle parole di Jon Michaud, autore di un articolo uscito sul New Yorker il mese scorso per il quarantennale di Dungeons and Dragons, pietra angolare di tutti i giochi di ruolo al cui altare abbiamo anche noi sacrificato, ovviamente, innumerevoli ore della nostra adolescenza.

Per qualche splendido anno ci siamo conservati puri, in totale controllo delle nostre sinapsi: di quei tempi, ci stendevamo sul ballatoio del nostro palazzo e passavamo ore ed ore a costruire mondi sconosciuti per i nostri Lego o incredibili campi di battaglia per gli omini Playmobil. E’ stato un periodo idillico durato fino almeno ai vent’anni, quando ancora tornavo a casa dall’università e mi facevo rapire da una partita di Trivial Pursuit o da una sfida a Monopoli all’ultima ipoteca.

Ho avuto il mio primo cellulare a diciassette anni, e solo perchè i miei genitori insistevano affinchè fossi rintracciabile mentre, con il motorino, mi facevo insultare ogni domenica nei campi di pallone di provincia come arbitro di calcio. Erano gli anni in cui connettersi ad internet era un piccolo, rumoroso evento giornaliero, e le enciclopedie esistevano in CD-ROM o addirittura in formato cartaceo.

Oggi, mentre giro con due cellulari in tasca (“girare” è ovviamente un eufemismo locomotorio inopportuno nella mia situazione, ma lo userò ciononostante prendendomi una piccola licenza poetica); mentre giro con due cellulari in tasca, dicevo, il multitasking mi frigge quotidianamente il cervello e violento il browser passando frenetico di scheda in scheda, di contenuto informativo in contenuto informativo, torno indietro a quei momenti con la consapevolezza che se non li avessi vissuti, non avrei avuto la necessaria robustezza  mentale per affrontare il bulimico presente.

Nella nostra adolescenza abbiamo allungato in maniera significativa quel fondamentale stato mentale attivo che è tipico dell’infanzia, quando i mondi sono tanti e ancora tutti da scoprire, o da creare. Per anni abbiamo continuato a dare forma a universi fantastici, siamo stati al contempo cantastorie e personaggi, abbiamo saputo immaginare complessi scenari geopolitici, ma soprattutto abbiamo saputo concentrarci sia sullo scenario d’insieme, sia sui suoi elementi particolari: nel farlo, abbiamo imparato a prevedere reazioni e contro-reazioni ad ogni nostra mossa, come in una partita di scacchi , dando di fatto origine a catene logiche di lunghezza potenziale infinita.

Nel farlo, il nostro cervello respirava e si irrobustiva.

Anni spesi ad inventare splendidi universi fittizi hanno inoltre re-indirizzato quelle “energie e miserie adolescenziali che altrimenti sarebbero stati rivolti ad usi ben più distruttivi.”

Nel lontano 2003, la nostra professoressa di filosofia del liceo, dopo averci scoperti a giocare a un gioco di ruolo in classe mentre lei faceva lezione, ci profetizzò una vita di miserie fermi in una Punto Uno bianca (era una Uno, cazzo! o al più una Citroën) al trivio di una metaforica tangenziale, incapaci di procedere oltre se non grazie alla miseranda propulsione della nostra energia onanistica.

Mentre domenica mi facevo annodare il papillon, pensavo a tutto questo: pensavo ai pomeriggi sul ballatoio di casa, ad amicizie senza tempo, al periodo più puro della mia esistenza, agli anatemi della mia professoressa di filosofia e a tanto altro. Pensavo a tutto questo, prima di tornare a rendere omaggio a quel rituale ludico della nostra adolescenza che ha contribuito a fare di noi gli uomini che siamo adesso.

Ma soprattutto, “quante gravidanze indesiderate abbiamo evitato perchè uno dei potenziali partner era troppo impegnato a cercare un tesoro in una cripta?”o ad invadere il Congo dall’Africa Meridionale?

-8: letture estive invalide

“In Vecchie carte da gioco Rosellina Balbi affronta la questione di cosa significhi essere di sinistra. E soprattutto quella che definisce «la tragedia dell’uguaglianza». Conclude l’articolo così, sotto il mio evidenziatore giallo ben calcato: «Personalmente, sono ancora e sempre del parere che la distinzione da fare sia quella tra l’ eguaglianza e il diritto all’ eguaglianza: la prima non esiste (per fortuna): ciascuno di noi deve fare la sua corsa e arrivare dove potrà, saprà e vorrà. Altra cosa è la parità delle condizioni di partenza: è questo che la sinistra deve ottenere, così come deve continuare a battersi perchè la innegabile diversità tra gli uomini non diventi pretesto per la discriminazione e il sopruso dei forti nei confronti dei deboli».

[…]

Però così avevo trovato all’improvviso la mia risposta semplice all’ossessione di mio padre per il comunismo. O meglio, la risposta a me stesso, per i dubbi che mio padre mi aveva messo nella testa […] Fino alla lettura di parole semplici e chiare che mi mettevano tranquillo per sempre.
Nella sostanza, quell’articolo di Rosellina Balbi mi venne in soccorso anche per il senso che aveva avuto la mia vita fino ad allora, e i pensieri che mi avevano attraversato. […] Un articolo oggettivamente trascurabile, uscito nella pagina culturale di un quotidiano in un giorno qualsiasi, ha avuto un’importanza decisiva per i miei pensieri. Mi ha, diciamo così, rasserenato. E’ come per le canzoni stupide, che finiscono per appartenerti per tutta la vita perchè le hai ascoltate in un momento particolare, e anche se le ascolti dopo tanti anni ti commuovi ancora, perchè ti riportano in modo preciso a quel momento. Allo stesso modo puoi leggerti Marx, Marcuse, Lenin, Luxemburg, e anche Dostoevskij, Balzac, però poi un giorno, data la fragilità teorica, le debolezze emotive o politiche, leggi un articolo, lo senti preciso e determina qualcosa in te.”

Tratto da Il desiderio di essere come TUTTI, di Francesco Piccolo.

Un viaggio di formazione individuale e collettiva nella storia (della sinistra) italiana che  – se permettete un paragone – mi par essere il corrispettivo letterario del viaggio personale e palermitano del Pif di La mafia uccide solo d’estate. Entrambi utilizzano un linguaggio narrativo scanzonato, ironico, leggero e a tratti profondissimo.

-9, citazione del giorno

“Non ti sentirai mai più del tutto a casa, perchè parte del tuo cuore sarà sempre altrove. Questo è il prezzo da pagare per quella ricchezza che consiste nel conoscere e amare persone diverse in più di un luogo”

“You will never be completely at home again, because part of your heart will always be elsewhere. That is the price you pay for the richness of loving and knowing people in more than one place”

, What it Feels Like to Leave London

-10

Fra dieci giorni torno bipede.

Mi toglieranno il gesso, e potrò finalmente vantare il quadricipite femorale sinistro dei sogni, di diametro pari a quello di Roberto Carlos. A fronte della gambetta destra di un bambino poliomelitico.

Sarò praticamente Rafael Nadal montato al contrario.

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In questo piacevole mese di carrozzina, ho scoperto che – almeno a Como e Torino – si sono fatti passi da gigante per risolvere l’annoso problema delle barriere architettoniche. E che quei pochi monumenti che ostacolano il cammino possono essere superati grazie all’aiuto degli amici.

Pertanto accettate questo piccolo, zoppo consiglio: almeno fino al perfezionamento della macchina del teletrasporto, teneteveli buoni, che senza di loro non si va da nessuna parte.

rat-man barriera architettonica

E visto che questo blog doveva essere in teoria un luogo ispirato da una certa qual vocazione informativa, vi segnalo il blog  di Fabrizio Marta alias Rotex, affetto da osteogenesi imperfetta ma soprattutto Cavaliere della Repubblica al merito (pensare che abbia condiviso questo titolo onorifico con un altro, ben più famoso “Cav” fa accapponare la pelle) per aver contribuito alla divulgazione dei diritti dei disabili e al turismo accessibile.

La photogallery di viaggi a due ruote sul suo sito è di una leggerezza rara, soave e bellissima.

In questo momento sta rotellando in Finlandia, e a lui va il mio pensiero.

Buon ferragosto a tutti!