Una piccola comunità a 3400 metri d’altezza. Che non dimentica gli orrori della guerra. Ma sa divertirsi con una gara tra porcellini d’India. Il mio reportage per OggiViaggi.
Alcuni lo chiamano turismo responsabile. Altri, anticonformismo a tutti i costi. Una sola è la certezza: abbattere le barriere tra viaggiatore, viaggio e ‘viaggiato’ non solo è possibile, ma anche relativamente facile.
Per dimostrarlo, ci siamo persi nel Perù più rurale a ballare musica andina con delle mamacitas locali in una sperduta comunità a 3400 metri d’altezza; abbiamo condiviso con esse oscure bevande di mais fermentato o stufati di agnello appena sgozzato; abbiamo partecipato a una entusiasmante consueta corsa di porcellini d’india e ci siamo finalmente addormentati, esausti, in una casa di fango e paglia.
Artigianato, pentoloni ripieni di zuppa e il ricordo commosso di chi fu ammazzato dai guerriglieri maoisti di Sendero Luminoso o, per rappresaglia, dalla milizia: tutto questo, e oltre, è stata la V Feria Agropecuaria, Gastronomica y Artesanal di Llinque, remoto angolo di mondo da novanta famiglie, fieramente arroccate sulle Ande a otto ore da Cusco.
I DUE OCCHI TRISTI DEL PERU
Siamo partiti alle cinque del mattino da Abancay, capoluogo del distretto dell’Apurimac, una delle regioni più falcidiate dalla sanguinosa guerra civile, quella fra guerrilla e stato, che ha annientato almeno un paio di generazioni a partire dagli anni ‘80.
La BP, la multinazionale inglese del petrolio responsabile del catastrofico incidente nel Golfo del Messico e della connessa apertura di una porta intermundi per il ritorno del terribile Cthulhu – come ci insegna South Park – è stata sponsor ufficiale delle Olimpiadi.
Come riferisce un articolo di Mother Jones, “tra tutti gli sponsor olimpici, BP è quella che è arrivata alle Olimpiadi completamente a pezzi nei sondaggi sulla percezione generale del marchio – difatti, è stata l’unica compagnia con un rating negativo, almeno stando ad un sondaggio YouGov BrandIndex. Ora, grazie ai cartelloni pubblicitari” – come quello qui sotto – “e alle campagne televisive , l’indice di gradimento per la BP è catapultato da un -5.9 a un netto +2.6 . Un salto pazzesco, comparabile solo a quello di Visa.”
La cosa più impressionante è che la redenzione mentale è avvenuta nelle cervella di…niente popodimenoche… il maschio adulto americano, oggetto del sondaggio YouGov. Ma diamine, ce l’hanno proprio lí, la macchia nera!
Better than saying…”WE ARE SOOOOOORRRYYYYYYYYYY….”
Le olimpiadi smobilitano e il sito Remains of the Games offre l’opportunità di portarvi via una sedia, un tavolo, un pezzo di gamba o di piede dal villaggio olimpico.
Un po’ ricorda i ratti dei London Riots dello scorso anno, anche se con tutt’altro spirito de Cubertiano: un’aura di eburnea legalità aleggia intorno a questo saccheggio feticista. Legalizzato e online.
Se siete fortunati, potrete trovare le macchie olimpiche dell’after-party di Bolt e delle tre proverbiali svedesone.
Ci sono cose che hanno il potere di allontanare la tristezza, anche se solo per un po’.
La musica è una di queste.
Gli Uchpa sono una band peruana di rock, blues e progressive, il tutto in lingua quechua. Vengono dalla regione montagnosa dell’Apurimac, territorio impregnato dal sangue dei suoi schivi e riservati campesinos, massacrati da Sendero Luminoso e dall’esercito a migliaia, durante “il conflitto” scoppiato negli anni ’80. Suonavano negli anni ’60 e suonano oggi che i contadini iniziano, poco a poco, a tornare a casa, sulle loro montagne, lasciando le gabbie urbane in cui erano stati costretti dalla violenza di stato e controstato. Furono gli anni dell’esplosione di Lima.
Vedere gli Uchpa dal vivo è qualcosa di poderoso. Freddy Ortiz, il cantante, si muove sul palco spiritato, in costume e cappello tradizionale che Jamiroquai gli fa una pippa. La sua spalla, Juan Espinoza, non smette un attimo di ballare. Fa solo quello, che Mangoni gli fa una pippa (nonostante idolatri il notorio architetto milanese). Rock e ande, blues e flauti, power chords e tijeras.
Il rombo lontano del Perù alla ricerca del suo contraddittorio futuro.
I miei reportage dal Sud America alla fine sono pubblicati su OggiViaggi, come…
questo qui sul viaggio in Amazzonia (la foto mostra l’antropologo David Serra, evidentemente calatosi troppo nei panni del selvaggio avventuriero)….
oppure questo qui, sui dannati delle miniere di Potosì. A seguire, La Paz, Arequipa, Medellin, Cusco e molto altro (o forse no).
Alla fine sì, ho trovato qualcuno che ancora paga degli articoli di viaggio, grazie al cielo.
E domani già si ritorna nel vecchio continente.
Sigh.
I miei diari di viaggio per Argentina, Bolivia e Peru non potevano che recare un distratto, umile e poco allusivo riferimento al grande viaggio del Che a bordo della sua mitica motocicletta – che poi la Poderosa si ruppe quasi subito, e l’eroe non ancora eroe e non ancora barbuto per sfangarla in Latino America dovette accontentarsi del banalissimo autostop o del piú moderno couchsurfing (quasi inventandolo, a sua insaputa).
Il tempo di fare due conti – un’epifania giornalistica, la potremmo chiamare – e subito scoprivo che il Che era salito in sella per il piú leggendario dei suoi viaggi giusto sessant’anni fa. Correva l’anno 1952, anche se l’inizio dell’anno 1952. Come non approfittarne per cercare di vendere il reportage dei miei viaggi al miglior offerente? Sessant’anni dopo, era ora il Monella a mettersi in viaggio. Ohibó.
Tuttavia, sono luoghi differenti, tempi differenti, durata del viaggio differente (la mia, di solo un mese). L’unica cosa che mi accumuna al Che é la crónica assenza di denaro – neanche la barba, a questo punto, che la mia sta crescendo folta mentre la Sua spruzzava il suo faccione in maniera irregolare. Manco a dirlo, nessuno ha voluto finanziare questa follia, e le rubriche ´viaggi´ della carta stampata mondiale mi hanno giustamente sbattuto le porte in faccia (come, d’altronde, avrei fatto io stesso). Il mio amore per PangeaNews, peró, va´oltre l’ostacolo – trattasi, in questo caso, della connessione internet boliviana, sfuttata al gelo notturno di un locutorio di La Paz, cittá che ha omaggiato il gigantesco Che Guevara con un’altrettanto gigantesca scultura di metallo, ai margini del mercato di El Alto.
Il Nord dimenticato: leggi e guarda le foto su PangeaNews o su OggiViaggi a partire da domani.