La risposta è almeno tre. Una di queste tuttavia non è colui che deve rinnovarla.
Succede oggi in una ASL locale, in cui mi reco sotto il diluvio per la “visita in attività istituzionale” di rinnovo della patente. Come ben sa chi segue questo blog da tempo, infatti, il documento mi scade il 29 novembre 2014 (già, sono passati dieci anni e ancora paio lo stesso giuovincello di un tempo…).
Effettuata la chiamata di prenotazione nella ragionevole finestra temporale di sei ore settimanali – il telefono, pubblico, squilla solo il lunedì, mercoledì, venerdì dalle 14 alle 16 – e fissato il mio appuntamento, riesco ad infilarmi nella ancor più esigua finestra temporale in cui si effettuano le visite per il “Rilascio patenti A-B-C-D-E-KA-KB” e a presentarmi, infine, al tanto atteso rendez-vous.
Piove che Dio la manda e sono in ritardo di dieci minuti.
Parcheggio di fuori con la doppia freccia tra un cancello, una striscia blu e un posto disabili che, se dovessi mai uscire dalla ASL abile e certificato, perderei comunque la patente per l’ammontare di infrazioni commesse in una sola manovra di parcheggio.
Trovo finalmente l’ufficio e, ad accogliermi, tre affabili signore schierate in mia attesa come le mitologiche Parche, Cloto, Lachesi e Atropo. Sono l’ultimo appuntamento della giornata, e dalla mia puntualità dipende evidentemente l’orario di timbratura del cartellino d’uscita.
A farmelo notare, il “Mbe? Avevamo perso la speranza” con il quale mi accolgono.
Mi accomodo, adducendo qualche scusa di circostanza.
La prima domanda riguarda i bollettini di pagamento e la foto tessera. Ce li ho. Presento tutto con fare zelante, quasi orgoglioso di non essere stato colto in fallo per una volta, e attendo.
Una di loro, Cloto, mi chiede se sto bene.
Deve essere quella che ha sostenuto più esami di medicina, dico fra me e me, e rispondo che non posso lamentarmi – se escludiamo il tempo.
“Porta gli occhiali?”
“No”, rispondo lapalissiano.
A questo punto le altre due comari iniziano ad armeggiare con le mie scartoffie. Una di esse alza e abbassa lo scanner, lo aziona, attende, lo aziona nuovamente con una smorfia contrita. Ecco! funziona.
Quell’altra mi porge un modulo da firmare ma ATTENZIONE che la firma non esca fuori dal rettangolo: “se no qui ci stiamo tutta la notte, glielo assicuro”.
Falsifico la mia firma al meglio per esaudire la richiesta, visto che avevo già preso un impegno dal dentista per le ore successive, e questa annuisce con aria soddisfatta. Ancora non sa di aver cantato vittoria troppo presto.
Una di loro sorveglia la scena in piedi, con aria inesorabile: è Atropo. Si assicura che tutto vada per il verso giusto.
Lachesi – la più anziana delle tre, forte accento meridionale – è quella deputata all’elettronica, e cerca sulla tastiera del computer “la freccetta” per inserire qualche dato correttamente.
Panico.
Il panico rientra: si scopre che la freccetta in questione è in realtà il tasto SHIFT.
“Metti solo Montalto che facciamo prima”
“Ma signora, ho due cognomi, mi chiamo Montalto Monella….”
“Si si tranquillo, dobbiamo solo rinominare la foto…”
Mi rilasso, anche se odo distintamente i clacson fuori che strombazzano – forse all’indirizzo della mia macchina.
Anche io ho cantato vittoria troppo presto.
Il sistema informatico ci tradisce tutti, tutti e quattro, e a quanto pare “ci butta fuori”. Password errata.
Due delle tre donne davanti a me si stringono ai lati della malcapitata alle tastiere e l’aiutano dettandole due password. Diverse.
Nel frattempo, per non farmi sentire a disagio, Cloto mi chiede di nuovo se “ho la prescrizione per gli occhiali”. Rispondo nuovamente di no.
Lachesi, colei che regge le fila della mia pratica online, è evidentemente in difficoltà. Ad un certo punto si alza ed esclama: “Scusate, non ce la faccio, perdo il treno”
Con passo deciso, si alza si infila il giubbotto e si avvia fuori dalla porta. I clacson di fuori sono più forti che mai. Nella stanza, sospiri carichi di tensione.
“Ma non è possibile, non ci credo…”
Atropo, l’inflessibile, si siede in postazione e decide di prendere in mano la situazione. Alza la cornetta per farsi dire da qualcuno lì fuori nell’universo la password corretta.
“Che dio ce la mandi buona”, esclama tra sè e sè, in maniera ben udibile.
BINGO. La password è quella giusta, la procedura viene riavviata. Nuova scansione dei miei documenti, accompagnata dalla nuova domanda “Porta gli occhiali?”. Questa volta mi viene richiesto anche se ho il diabete.
Nego, spudorato.
Nella borsa di Cloto intanto fa BLING un cellulare. Lei si alza, va a controllare, risponde all’SMS e torna a sedersi.
C’è un nuovo problema, però: la foto all’interno del computer supera la larghezza massima consentita.
“Dobbiamo scansionare di nuovo”, esclama la prima delle Parche come se dovesse eseguire un’operazione a cuore aperto.
Sono già passati 15 minuti, e inizio a sudare freddo.
La porta si spalanca. E’ Lachesi che torna, aveva dimenticato l’ombrello. Con la stessa fugacità con cui arriva la morte, lei afferra l’oggetto e si dilegua. Cloto, nel frattempo, si lancia ad aiutare un gentiluomo che sosta fuori dalla porta indicandogli quali bollettini pagare nella vicina posta, sempre più multitasking.
Scopro che una di loro deve timbrare alle 16,15. Mancano pochi minuti, è una corsa contro il tempo.
In quel momento, la tensione si scioglie (accompagnata da un altro BLING del cellulare di Cloto): “ODDIO ME L’HA PRESA! Se no dovevamo stare qui fino a stasera, glielo assicuro!”
Si aziona la stampante. Ecco che dalle bocche dell’Averno escono finalmente i miei moduli. Un timbro e via, sono libero.
Afferro il libro che porto con me e, mentre esco da quell’ufficio, mi pare di scorgere il pannello luminoso grazie al quale, normalmente, viene misurata la vista. Nessuno si è accorto nè della sua presenza durante tutta la procedura, nè della mia.
Tornato in macchina, getto il libro sul sedile laterale, sospirando di sollievo per aver evitato una multa potenzialmente fatale.
Tutto è andato bene, sono stato fortunato a non incappare in uno di quei fastidiosi attacchi epilettici che solitamente mi tormentano, e la vista non mi si è annebbiata all’improvviso come talvolta accade.
Prima di tornare a casa, butto un occhio sul titolo del libro.
Nulla accade casualmente nell’universo.