Thanks to Eleanor Osborne, ScribbleLive.
Quasi vent’anni fa – era un caldo dicembre del 1993 – moriva il più famoso narcotrafficante del mondo, Pablo Escobar. Moriva fuggitivo, leggenda, sui tetti della sua città, Medellín, allora considerata la più pericolosa del mondo, la capitale della droga. Oggi, come recita un noto spot turistico colombiano, a Medellín l’unico rischio è quello di voler rimanere per sempre tra le sue verdi montagne, immerse in una eterna primavera tenacemente ritrovata.
SPLENDIDA, DINAMICA FENICE. Il fiore che il narcotraffico aveva rischiato di danneggiare per sempre è rinato dalle sue stesse ceneri. Non poteva che essere altrimenti: il destino di Medellín sembra essere da sempre quello della bellezza. Immaginatevi una città incastonata fra le montagne, alla giusta altezza sul livello del mare per essere fresca e al contempo accarezzata dal caldo sole d’altura; temperatura media di venticinque gradi, quella giusta, tutto l’anno, niente stagioni; una vegetazione rigogliosa, baciata dai colibrì e benedetta dalla frutta tropicale più buona; gente calda, amabile, bianca, nera o mulatta ma comunque bellissima (questa perfezione geotermica ha prodotto uomini affascinanti e donne floride); piatti tipici ricchi e abbondanti, dove l’avocado e il platano si mescolano concordi con carne e riso come le diverse razze umane fra le caotiche strade del centro.
CENT’ANNI DI SOLITUDINE. Tutto questo è Medellín, seconda città della Colombia con i suoi tre milioni di abitanti, epicentro commerciale, industriale ed edonistico del paese, leader della manifattura, del tessile e della moda. Una metropoli consapevole di sé stessa, che ha scalzato la capitale-rivale Bogotà nell’indice globale di competitività del paese (fonte: Observatorio Economico del Caribe) e in cui, secondo dati pubblicati sul quotidiano El Tiempo, il 70% degli abitanti crede si possa crescere ancora nei prossimi quattro anni. Alla faccia della crisi mondiale. Si dice da queste parti che il Nobel colombiano Gabriel García Marquez, allora reporter d’assalto del quotidiano medellinense El Espectador, abbia tratto l’ispirazione per la sua più geniale creatura, l’immobile pueblo dell’eterno ritorno di Cent’anni di solitudine, da uno dei bellissimi paesini coloniali del departamento di Antioquia, di cui Medellin è capitale. Vere e proprie nature morte a pianta regolare, chiesa e piazzetta antistante, immerse tra verdi colline, laghi e piantagioni di caffè.
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Una piccola comunità a 3400 metri d’altezza. Che non dimentica gli orrori della guerra. Ma sa divertirsi con una gara tra porcellini d’India. Il mio reportage per OggiViaggi.
Alcuni lo chiamano turismo responsabile. Altri, anticonformismo a tutti i costi. Una sola è la certezza: abbattere le barriere tra viaggiatore, viaggio e ‘viaggiato’ non solo è possibile, ma anche relativamente facile.
Per dimostrarlo, ci siamo persi nel Perù più rurale a ballare musica andina con delle mamacitas locali in una sperduta comunità a 3400 metri d’altezza; abbiamo condiviso con esse oscure bevande di mais fermentato o stufati di agnello appena sgozzato; abbiamo partecipato a una entusiasmante consueta corsa di porcellini d’india e ci siamo finalmente addormentati, esausti, in una casa di fango e paglia.
Artigianato, pentoloni ripieni di zuppa e il ricordo commosso di chi fu ammazzato dai guerriglieri maoisti di Sendero Luminoso o, per rappresaglia, dalla milizia: tutto questo, e oltre, è stata la V Feria Agropecuaria, Gastronomica y Artesanal di Llinque, remoto angolo di mondo da novanta famiglie, fieramente arroccate sulle Ande a otto ore da Cusco.
I DUE OCCHI TRISTI DEL PERU
Siamo partiti alle cinque del mattino da Abancay, capoluogo del distretto dell’Apurimac, una delle regioni più falcidiate dalla sanguinosa guerra civile, quella fra guerrilla e stato, che ha annientato almeno un paio di generazioni a partire dagli anni ‘80.
Le olimpiadi smobilitano e il sito Remains of the Games offre l’opportunità di portarvi via una sedia, un tavolo, un pezzo di gamba o di piede dal villaggio olimpico.
Un po’ ricorda i ratti dei London Riots dello scorso anno, anche se con tutt’altro spirito de Cubertiano: un’aura di eburnea legalità aleggia intorno a questo saccheggio feticista. Legalizzato e online.
Se siete fortunati, potrete trovare le macchie olimpiche dell’after-party di Bolt e delle tre proverbiali svedesone.
Ci sono cose che hanno il potere di allontanare la tristezza, anche se solo per un po’.
La musica è una di queste.
Gli Uchpa sono una band peruana di rock, blues e progressive, il tutto in lingua quechua. Vengono dalla regione montagnosa dell’Apurimac, territorio impregnato dal sangue dei suoi schivi e riservati campesinos, massacrati da Sendero Luminoso e dall’esercito a migliaia, durante “il conflitto” scoppiato negli anni ’80. Suonavano negli anni ’60 e suonano oggi che i contadini iniziano, poco a poco, a tornare a casa, sulle loro montagne, lasciando le gabbie urbane in cui erano stati costretti dalla violenza di stato e controstato. Furono gli anni dell’esplosione di Lima.
Vedere gli Uchpa dal vivo è qualcosa di poderoso. Freddy Ortiz, il cantante, si muove sul palco spiritato, in costume e cappello tradizionale che Jamiroquai gli fa una pippa. La sua spalla, Juan Espinoza, non smette un attimo di ballare. Fa solo quello, che Mangoni gli fa una pippa (nonostante idolatri il notorio architetto milanese). Rock e ande, blues e flauti, power chords e tijeras.
Il rombo lontano del Perù alla ricerca del suo contraddittorio futuro.