Salgo sulla metro a Londra e leggo questo articolo sull’Evening Standard:
Parla di me. Ma anche del mio vicino, un indiano distinto con il baffo ben curato che ricorda quello di Earl, in My Name is Earl.
Mentre lo leggo, il ragazzo in piedi davanti a me sorride sotto i…. ok, questa era scontata. Anche lui, tuttavia, mostra un D’Artagnan ben curato. L’articolo parla anche di lui. Finisco, ed ecco quello sguardo d’intesa che mi aspettavo, quello che unisce due o più persone quando condividono un segreto comune, o quando stanno entrambi vivendo – privilegiati – la stessa esperienza straordinaria. Tutt’intorno, l’uomo comune. Quello che non ha colto quella istantanea empatia baffuta scattata in un vagone della metropolitana.
La città intera si è riempita improvvisamente di Mo Bros, di fratelli baffuti. E te ne accorgi così, tutto d’un tratto, come un’epifania.
Scrive Richard Godwin:
Il baffo del 21esimo secolo gioca con questa eredità conflittuale. E’ notoriamente ridicolo, quasi fosse un capo di vestiario distinto e semi-permanente, un sopracciglio alzato al mondo. Allo stesso tempo, tuttavia, esprime un anelito verso l’autenticità, in ricordo di un tempo in cui gli uomini sapevano esattamente cosa era loro richiesto, e questa peluria naturale (come quella femminile) è riuscita a farsi strada senza l’ostacolo della convenzione sociale.
Forse, quindi, il baffo esprime — o forse addirittura risolve? — due istinti mascolini contrapposti. E’ al contempo leggero, come una piuma, e dannatamente onesto. Il maschio di Movember è tormentato dalla nostalgia per quei giorni in cui era sicuro del proprio posto nel mondo, e forse fatica a prendersi sul serio. Ma è sincero nella sua solidarietà con i suoi fratelli maschi, pronto a farsi vulnerabile, aperto a conversazioni emozionali. Pronto a imparare dalle sue sorelle femministe.
Poesia.
Qui, in inglese, qualche accenno sulla storia di Movember, l’equivalente maschile del fiocco rosa per la lotta contro il cancro al seno:
The concept has not changed much since four Australians laid down the ground rules over a few beers in a Melbourne pub in 2003. You begin the month clean-shaven; let the bristles emerge from your upper lip while continuing to shave the rest of your face; and at the end of the month, get waxing and twirling. Napoleonic cavalry officer? Eastern bloc footballer? Latino dictator? Adrian Mole circa 1982? Let your bristles be your guide.
As a social meme, Movember has already proved more popular than its originators could ever have envisaged. At the beginning of the month, Big Ben, that most phallic political landmark, wore a moustache. Camden’s Barfly bears the legend Movember in two-metre high letters. Male grooming companies, such as Gillette, are fully on board (missing the point, perhaps?) while Andre 3000 and Snoop Dogg are among the celebrity “Mo Bros”.
The real meaning of all this is there in the official Movember motto: “Changing the face of men’s health”. The Movember Foundation is now the biggest single funder of prostate cancer research and support programmes in the world, raising £79.3 million for men’s health causes in 2011, with more than 850,000 people taking part.
Ecco qualcuna della sorprendenti cifre di questo fenomeno, in costante crescita, esponenziale, a partire da quella chiacchierata al pub.
Initially, the Prostate Cancer Foundation of Australia was sceptical — less so when Garone came back a year later with the equivalent of £21,600, raised by the first sponsored Mo Bros. The “movement” grew so popular in Australia and New Zealand (where mustachioed policemen, newsreaders, gynaecologists, etc, are a November commonplace) that even “ultra-conservative” cancer charities got on board. In 2008, it began to spread to Canada, the US and the UK, where it has had notable success. Some £22 million was raised in the UK last year, with more than 254,000 people taking part.
You’ve probably felt it for some time, but now the roadmap is becoming clear—companies must build their own media empires. And if they don’t, they risk missing a window of opportunity that provides myriad benefits, whether it’s telling their own stories or becoming more efficient with the media dollars they spend.
[…]
It’s all going to come down to this: content, quality, frequency and relevancy. If companies are to become media, they must master the art and science of merging marketing with a real-time news cycle. The content a company produces must be compelling and built for an audience with an itchy “like” finger.
And it’s going to take time. Most companies don’t have full-time editors and newsrooms that work hand-in-hand with their marketing department and partners, but in a few years they might.
Quando si parla di companies, in questo caso, si accomunano media e agenzie pubblicitarie, redazioni giornalistiche e PR. Il ciclo della notizia, quello che dura 24 ore e poi muore, si fa pubbicità, e la pubblicità – in quattro parole: contenuto, qualità, frequenza, rilevanza – si fa notizia.
Al New York Times, la responsabile di una simile campagna publicitaria, quella dei biscotti Oreo, dice: “Creating content in real time is not easy to do. But we’re happy to see that the content we’re creating has been found very relevant.”
Le sue parole sono supportate dai numeri. Dal 25 giugno al 20 agosto, i ‘likes,’ comments and ‘shares’ della campagna Oreo su Facebook sono cresciuti del 110percento.
The daily ads are “to show the world how relevant this brand is now,” she added, by commenting on “real-time happenings.”
La riflessione da portare a casa, care redazioni e cari dipartimenti di marketing, è la seguente:
“It’s been the best feeling in the business: to see your work make people do something — share it, talk about it.”
Non sottovalutare la potenza del contenuto real-time sempre originale, ogni giorno diverso dal precedente. La battaglia contro i social media si vince imparando a dominarli, non facendosi dominare. Appena torno a casa base, magari ci ragioniamo su assieme. Scusate la fretta.
Era ora. Esce il primo studio sul fenomeno liveblog, proprio all’indomani della mia masterclass a Glocal12 e mentre promettevo un post a riguardo su queste stesse colonne.
Neil Thurman e Anna Walters del dipartimento di giornalismo della cara, vecchia City University of London hanno analizzato i live blogging del guardian.co.uk – ovvero il secondo sito del Regno Unito dopo l’inarrivabile Daily Mail – in Live Blogging-Digital Journalism’s Pivotal Platform? (2012, in Digital Journalism, DOI: 10.1080/21670811.2012.714935).
Hanno scoperto il segreto di pulcinella, ovvero l’estrema popolarità del liveblog presso il pubblico, avido consumatore di news online.
A new survey has discovered that live blogs are getting 300% more views and 233% more visitors than conventional online articles on the same subject (R. Greenslade)
Anche in Italia il fenomeno si sta diffondendo, come testimoniano gli sforzi recenti di Repubblica e Corriere. C’è sempre maggiore curiosità. Il giornalista che partecipa ad un festival di giornalismo non ne può più della solita manfrina sulla morte del giornale di carta. Ha fame di nuovi strumenti, vuole imparare e vuole farlo al più presto. I workshops sono più frequentati dei dibattiti. Le mani si alzano più volentieri per chiedere ‘come si fa una cosa’, rispetto al ‘perchè dovremmo farla’. Il giornalista che si ritrova ad un festival del giornalismo vuole stare al passo coi tempi, per scrollarsi di dosso quella spiacevole sensazione da periferia del mondo civilizzato.
Ho trovato conferma di questo qualche giorno fa, in prima persona, durante il festival GLocal12a Varese, quando da perfetto sconosciuto sono riuscito ad attirare un cospicuo numero di persone semplicemente proponendo un tema nuovo. Erano tutti desiderosi di sentire qualcosa di diverso, che andasse oltre le sterili discussioni sui modelli online vs cartacei o sui noiosissimi social networks. Finito il mio intervento, ho notato con piacere che mentre parlavo il volume di tweets non era stato così alto come durante altri dibattiti. Cosa vuol dire? Che gli spettatori mi stavano a sentire, proprio come succedeva ai vecchi tempi, ai vecchi convegni: chi era seduto in sala, sabato, non era impegnato a trovare qualcosa di brillante da twittare per accalappiare qualche follower in più.
Il sollievo più grande per uno speaker.
Liveblogging, dunque.
E’ stato accusato (anch’esso) di essere la morte del giornalismo (Symes 2011), data la sua tendenza a creare ingorghi semantici e informativi e abbassare gli standard di verifica della notizia (viste le veloci tempistiche con cui si sviluppa). Ciononostante, gli autori dello studio si chiedono se rivesta una funzione di cardinale importanza nel giornalismo contemporaneo.
Considerando i i numeri appena citati, la risposta sarebbe ovvia.
Ma procediamo con ordine. Neil Thurman e Anna Walters hanno analizzato la pubblicazione leader nel settore dal 1999….. chi-altri-se-non-lui…. TADAAAM! il Guardian. Come campione, sono stati scelti 146 liveblogs pubblciati tra l’aprile 2011 e il giugno 2011 sul sito del quotidiano (ripeto, 146!).
Inizialmente, ci dice lo studio, questa nuova cosa del liveblogging si applicava solamente alle partite di calcio e cricket, ma ben presto si è capito che il formato poteva dare una rinfrescata a ben altri campi del giornalismo. Gli attentati londinesi del luglio 2005 hanno di fatto confermato questo sospetto.
Che cos’è un liveblog, innanzitutto? “A single blog post on a specific topic to which time-stamped content is progressively added for a finite period—anywhere between half an hour and 24 hours,” si segnala per le seguenti caratteristiche:
– un sommario in cima;
– compresenza di elementi multimediali e diversi social media in un’unica narrativa;
– tono informale;
– time-stamps;
– trasparenza e rapidità nelle rettifiche;
– uso generoso di hyperlinks – che puntano ad altri articoli dello stesso sito, o esternamente;
– contenuto prodotto da terzi;
L’analisi di Thurman e Anna Walters evidenzia – a partire da dati forniti da guardian.co.uk, che i liveblogs registrano a) una gran quantità di accessi e lunghissimo di tempo medio di permanenza in pagina; b) la maggioranza degli accessi avviene durante l’orario d’ufficio, specialmente verso le 11 del mattino.
Live blogging is hugely popular. They also outperform online picture galleries, getting 219% more visitors.
‘Prestazioni web’, quindi, nettamente superiori rispetto ai classici elementi statici (penso a una foto gallery o a un articolo dalla classica struttura a V rovesciata).
Per quanto riguarda i minuti spesi in pagina, i live blogs si confermano di gran lunga più efficaci delle altre due categorie tradizionali. Puntare sul real-time news, e al contempo passare da un modello pubblicitario basato sul click a uno basato sull’user engagement time diventa pertanto fondamentale per vincere la sfida della monetizzazione dei contenuti online. Una scelta illuminata per il primo editore in Italia che avrà il coraggio di osare, per davvero.
Allontanandosi un po’ dalla Gran Bretagna e guardando ai nostri lidi, il liveblog può rappresentare una nuova frontiera per il giornalismo italiano, in cui tradizionalmente fatti e opinioni sgomitano fianco a fianco, si dividono le colonne dello stesso articolo e si cammuffano gli uni dagli altri. Grazie all’enfasi data all’attività curatoriale rispetto a quella opinionistica, il liveblog potrebbe assolvere un ruolo cardine nel lento processo di recupero della fiducia riposta nelle testate tradizionali da parte del pubblico – inutile nascondere che per i giornalisti si usa talvolta (anzi, mi pare sempre più spesso) la stessa, vituperata parola casta che si utilizza per il bistrattato ceto dirigente politico. Quando c’è poco tempo per condire i fatti con le opinioni, insomma, a rimanere sono solo i primi – per le seconde, ci sarà tempo, magari in seguito, magari con un pezzo statico, o addirittura un editoriale.
Il discorso dello studio cade anche sull’accuratezza, altro grande problema nostrano. Se oggettività è un concetto che richiama quelli di attribuzione e verifica, in un liveblog si fa costante attività di curatorship (aiutando quindi il lettore a districarsi nella selva oscura social); per la natura intrinseca del mezzo, non si può fare altro che citare costantemente materiale altrui, favorendo pertanto il processo di verifica della notizia (spesso in collaborazione con i lettori stessi).
readers feel that live blogs are less opinionated and “more factual” than traditional articles written with care after an event (R. Greenslade)
Si dice scherzosamente (ma neanche tanto) che il tempo della notizia – news cycle – sia passato dalle 24 ore ai 24 secondi. Aumenta la dipendenza dalle agenzie, aumenta la dipendenza da Twitter. Non c’è tempo, bisogna pubblicare prima degli altri – Giornalettismo insegna, con i suoi fulminanti e ficcanti articoletti pensati per diventare viral nel giro di pochi minuti. Il liveblog, con il suo carattere dinamico, in costante aggiornamento, potrebbe fornire un ottimo sostegno psicologico per rallentare il processo frenetico della pubblicazione a tutti i costi, prima di tutti: una volta creata, la storia è già lì, che si sviluppa, bisogna solo darle tempo. Anzi, più tempo le diamo, più sarà approfondita e autorevole.
Readers liked the neutral tone, the fact that information was corrected quickly, and the balance that they believed the mix of sources provided. Conventional news articles were considered, by most readers who expressed an opinion, to be more “polemical” or “opinion based”. In contrast, Live Blogs were seen as “more factual”, as they provided “statements” readers could “draw [their] own conclusion
Il liveblog è inoltre un’esperienza collaborativa: i giornalisti lavorano spesso in tandem o in piccoli gruppi, con sempre più frequenti integrazioni from the field, dal luogo dell’azione. Solo un 20% dei liveblogs del Guardian analizzati sono stati interamente prodotti ‘al volo’, on the fly. Il liveblogger è e rimane un animale da ufficio. I contributi esterni, tuttavia, impreziosiscono la diretta. E’ pur sempre giornalismo vecchio-stampo, anche se effettuato con nuovi mezzi. Il giornalismo non muore, si evolve e ritrova i vecchi standard qualitativi. Il reporter è tornato lì fuori, a caccia di scoop, testimonianze e interviste; in sede, ecco che il redattore contestualizza, aspettando bramoso che il telefono squilli con qualche novità.
Oggi il telefono non squilla più, la storia si costruisce da sè in tempo reale. Il nostro redattore non deve far altro che osservare compiaciuto l’arrivo del pezzo mancante del puzzle, direttamente dal suo inviato. Si torna ad aggirare il social network: ecco che l’aggiornamento non passa più da Twitter per essere successivamente rimbalzato in pagina, bensì finisce come prima cosa nella narrazione, salvo poi essere pubblicizzato in un secondo momento. Il medium Twitter torna così ad essere un ottimo strumento per attirare traffico al sito internet, non per sottrarlo ad esso. Come è giusto che sia.
Twitter torna inoltre ad essere un imprescindibile risorsa di fonti e testimonianze: abbandonata la necessità di includere nella narrazione tutto il possibile, in maniera bulimica, si abbandonano i grandi hashtag (come #syryia o #yemen) e ci si può finalmente concentrare per effettuare una ricerca più mirata, più selettiva. In una parola, di qualità.
“I’ll be doing Syria or Yemen, and I won’t be looking at generic search terms, I’ll be looking at lists of people who we know are there” (Andrew Sparrow, The Guardian)
Il tweet particolare contestualizzato in una grande narrativa dal senso compiuto si riveste di nuovo valore – invece che perderlo, soprattutto se isolato dal suo contesto e lasciato alla deriva nel mare magnum di Tweetdeck.
Ci sono ovviamente i lati negativi, come in tutte le cose (non si può infatti trasformare un sito internet in un grande contenitore di liveblogs, nè è francamente auspicabile). Paul Lewis, il giovane giornalista più promettente del Regno Unito – famoso per le sue investigazioni Twitter in crowdsourcing– fa notare che
Live Blogs need regular updates, but what if there is nothing newsworthy or reliable happening in that time? The danger is that in the rush to do regular updates, and in adopting this new view whereby we say we’ll put information out and label it appropriately and allow people to determine how accurate it is, we will inadvertently make a really serious mistake of some kind (personal communication, 8 June 2011).
Insomma, talvolta è un bene che siano i lettori a farci notare gli errori e le incongruenze di una storia… ma non dimentichiamoci che in ultima istanza è sempre il dovere di un buon giornalista verificare prima della pubblicazione. Raggiungere un buon bilanciamento fra giornalismo collaborativo e accuratezza è sicuramente un beneficio per qualsiasi editore, e per qualsiasi giornalista che aspiri a costruirsi un brand personale sui social media – come è di moda di questi tempi.
Il pubblico, infine. Il 35 percento degli intervistati in questo studio della City University of London ammette di essere stata incollata allo schermo “per quasi tutto il tempo” in cui si è sviluppato il liveblog per via della sua “addictive … nature.” I lettori si sentono lì, sul bordo, parte del processo stesso di costruzione della notizia. Il senso di immediatezza prodotto non ha nulla a che vedere con quello generato da un articolo statico – se escludiamo questo, ovviamente. Un senso di “urgenza”che porta il lettore a essere più aperto al commento e all’interazione – doppiamente più propenso rispetto a quando si ritrova davanti il tradizionale, autorevole monolite.
Il mezzo, conclude la ricerca, è in grado di soddisfare il sempre più esigente palato del lettore, offrendogli svago e distrazione mentre in ufficio, follow-up a vicenda conclusa (magari attraverso una live chat) e qualità d’informazione in tempo reale. Lo sforzo per navigare è infine pari all’attention span del pubblico: minimo.
Come ho cercato di fare notare a Varese, tra notizie gratis e notizie a pagamento c’è un alternativa. Un’alternativa diversa dalla ‘morte del giornale e del giornalista’.
The Live Blog is one of the few web-native news artefacts. Its growth, into a common format for online news, has happened in parallel with the displacement of news consumption from print to online, a trend that is altering where, when, how, and what news is accessed […] [liveblogs] also have characteristics—their intensity, level of reader participation, and engagement with public affairs—that recalls the early nineteenth- century radical press. At a time of economic and political upheaval, Live Blogging might not only be meeting readers’ changing temporal and spatial preferences for news consumption, but also delivering levels of participation and transparency better suited to contemporary democratic demands.
Una visione alternativa delle notizie in cui non si fa più a gara di velocità con gli imprendibili social media, ma si impongono loro nuove regole, sfidandoli sul terreno della curatela editoriale e della qualità d’approfondimento. Terreno su cui, ovviamente, non c’è partita. Una visione alternativa in cui Twitter torna ad essere mezzo-strumento, non più padre-padrone del ciclo della notizia.
Qui sotto trovate la diretta di quei tre meravigliosi giorni in formato embed. Per una visualizzazione migliore, questo il link alla pagina whitelabel. Ricordatevi che questo live blog è stato pensato per essere proiettato su megaschermo in sala (di modo che relatori, speakers e moderatori potessero attingerne a piene mani per spunti di dibattito), e complementato con live stream e attività Twitter. Molti post sono quindi brevi, concisi: più che la trascrizione di un dibattito per non-vedenti, è stato uno strumento complementare, funzionale al dibattito, che il dibattito alimentava e si alimentava dello stesso – talvolta in maniera spigliata e sbarazzina.
Appena sbrigo un po’ di lavoro arretrato arriva un post più approfondito sull’esperienza del giornalismo G-local: come osservatore, speaker, giornalista, curioso e critico. Nell’attesa, rimando a questo post di Mario Tedeschini Lalli, vicedirettore, direzione Innovazione e Sviluppo al Gruppo Editoriale L’Espresso, e al consueto:
Il “giornalismo” è non solo tramontato, è proprio morto
…che, declinato ogni volta in accezioni diverse, ha scandito il ritmo del convegno di Varese (condito, all’occasione, dalla parola social).
Ricapitolando gli appelli finali: Renzi in versione Jovanotti, Carmelo Bene nella parte di Vendola, la Puppato che potrebbe dire le cose ma non lo fa e poi invece le dice, Bersani che non vuole star simpatico alla gente, e Tabacci che non glie ne frega una sega di essere eletto. So (e sapevo già) per chi voterò.Simone Sbaraglia su Facebook.
Meno male che almeno in Italia è sbarcato il fact-checking. Almeno questo.
Di quella notte ricordo poco, se non l’essere stato sveglio, tra divano, letto, cucina e balcone, col computer rigorosamente incollato all’inguine (sono convinto un giorno mi verrà qualcosa ai testicoli); live streams in inglese e italiano come colonna sonora; partite occasionali di Fifa’13 per tenermi sveglio; un esaltante Toy Story 3 in compagnia del mio coinquilino e una couchsurfer tedesca e un’ultima, drammatica Red Bull delle 4,30 del mattino, con conseguente annuncio del mio capo che i giochi erano finiti, e potevo andare a letto. Non poteva essere altrimenti.
Di quella sera, ricordo anche 3-4 cosucce che ho visto qua e là per la rete e mi hanno fatto restare a bocca aperta.
Vince il premio. Saranno anche con le pezze al culo, ma questa graphic novel in HTML 5 batte tutti. Assolutamente inutile, ma vuoi mettere l’importanza del viral di questi tempi?
Per la serie: “il vostro sentiero è quello dove vi trovate ora: finché vi ricordate che la vostra vita è sempre nella perfezione e che essa è perfetta per voi, potete trovare conforto sapendo che siete sul sentiero giusto.” Pacchiano ma efficace.
Contest! Inserisci il tuo pronostico e twittalo, o mandacelo via email. Come se a qualcuno (o a noi) interessasse davvero. C’è un elefante nella stanza, ma stiamo al giuoco e facciamo finta di non vederlo.
Fa tutto parte del nerdissimo progetto Open Data. Gli esperti di Brandwatch hanno tirato fuori dal cilindro questa rappresentazione radiale delle variazioni di priorità nei vari stati americani – ovviamente basato su Twitter, il vero specchio del reale (o forse no), e siti di informazione. Di cosa si parla, e per quanto?
Passi per Londra a Novembre inoltrato e sembra di stare negli anni ’70. Mancano solo i pantaloni a zampa (che provvederò a comprare).
E’ MOVEMBER, e la gente si fa crescere i baffi in supporto alla lotta contro il cancro alla prostata o, più in generale, per altre cause benefiche. Come funziona? E’ semplice. Come sintetizza efficacemente un amico su Facebook,
Giusto per ricordare che Movember non è solo una vaccata per poter portare il baffo senza che la morosa mi punisca mandandomi in bianco (cosa che temo accadrà comunque):
Movember è una raccolta fondi per la ricerca contro il cancro alla prostata, donate qualche soldino per una buona causa
Supportate i nostri sforzi (e le nostre notti in bianco) donando qualche spicciolo per la ricerca su questo sito. http://uk.movember.com/mospace/4313225
Come vedete, partecipo anch’io.
Vi terrò aggiornati su lunghezza e dimensione del baffo, in maniera pressochè quotidiana.