Ho appena trovato questo blog post sul sito della Reuters che parla di ciò che in gergo si chiama advertorial (o, nella sua evoluzione moderna, native advertising) cioè di pubblicità mascherata da contenuto editoriale, e del complesso rapporto redazioni che faticano a fare quadrare i conti e tali demoniache tentazioni che si presentano sacchi di dollari alle mani.
Felix Salmon, l’autore del post, prende l’esempio di Quartz, che oltre ad avere uno dei design più fighi di sempre, è all’avanguardia per quanto riguarda strategie di monetizzazione dei contenuti, user experience e integrazione con le piattaforme mobile.
Da quando è nato l’anno scorso con questa filosofia vincente (ciò che manca alla maggior parte delle redazioni italiane: una figura di raccordo fra sviluppo, design e prodotto editoriale)…
Developers and journalists, sometimes one-and-the-same, sit next to each other in the Quartz newsroom as we continually iterate and experiment. We know that the future of news will be written in code.
… nonha mai nascosto di ospitare contenuto ‘a pagamento’ nelle sue pagine pagine HTML5 dallo scrolling virtualmente infinito. Il tutto in maniera molto trasparente (This article is written by Chevron and not by the Quartz editorial staff), come si usa fare in America, dove ad esempio i partiti ricevono laute donazioni da lobbies come quella delle armi, ma il tutto è accettato in nome del santo principio della trasparenza.
L’advertorial, scrive Salmon, è una filosofia vincente nel senso che Quartz ha contenuto extra da pubblicare in pagina con pochi sforzi di editing, ottiene pile di cash dallo sponsor e lo sponsor, in cambio, ottiene un’esposizione mediatica a cui altrimenti sarebbe difficile aspirare.
Quartz, proprio come Fortune, sembra aver tratto le conseguenze da come vanno le cose giù in strada, nella vita reale, dove per ogni giornalista americano ci sono 9 professionisti della comunicazione meglio pagati che sgomitano per attirare l’attenzione e persuaderlo a pubblicare qualcosa per una qualche compagnia (flack-to-hack ratio). Scrive Salmon che esiste già un luogo della rete in cui i vari brands possono mettere in vetrina il proprio contenuto editoriale promozionale, ed è Linkedin, ma stare sulle colonne di Forbes, Fortune o Quartz è ovviamente tutta un’altra cosa – un investimento del valore di 250,000$ fino al milione di dollari a pezzo, per l’esattezza.
Ovviamente più il contenuto sembra autentico, continua l’articolo, più lo sponsor è disposto a pagare. La pubblicità perfetta, nel migliore dei mondi possibile, è ovviamente l’endorsement volontario da parte delle redazioni: un articolo genuino (ergo, non commissionato) su quanto sia buono un prodotto e quanto sia conveniente per il consumatore/investitore drizzare le antenne.
Una buona recensione, insomma.
Da tutto questo possiamo trarre alcuni interrogativi (editoriali, morali, commerciali) per le nostre redazioni italiane 2.0 che cercano la quadratura del cerchio, soprattutto a livello economico:
- quale la linea da tracciare per non perdere credibilità, rispetto e indipendenza editoriale di fronte ai lettori? Meglio la franchezza e la trasparenza made in USA – che consentono almeno di pensare ad un modello di crescita economica alternativa – o una falsa ipocrisia a riguardo, salvo poi pubblicare o non pubblicare ciò che fa comodo a questo o quel gruppo industriale/politico secondo tradizionali e implicite dinamiche che si modellano sui consueti ed accettati rapporti di forza giornale-politica-industria?;
- quale e quanto contenuto advertorial conviene ospitare alla piccola/media/grande redazione? Non bisogna fare voli pindarici e pensare di ospitare contenuto promosso dalla perfida BP sulle colonne del Gazzettino di Mantova. Possiamo pensare alla clinica per la perdita di peso che paga per avere uno spazio settimanale in pagina ottenendo in cambio visibilità – mentre il piccolo giornale online ottiene di fornire un servizio alla propria community e fare cassa;
- quante e quali risorse umane di redazione vanno allocate o prestate al dipartimento marketing? quanto è necessario che l’uno e l’altro inizino a pensare come entità legate da un comune destino?
- evoluzione e sviluppo di modelli editoriali dietro paywall diretti a grandi aziende ed esperti di settore – ie, creazione di community a là Linkedin, con accesso esclusivo e community managers dedicati, dove l’advertorial può finalmente trovare pace e accettazione – modelli finora sviluppati solo da realtà del calibro di WSJ, FT o Sole24Ore;
- suggerimenti…?
Badate bene, da giornalista quale sono continuo ad avere una bassa stima del contenuto ‘comprato’ – e di coloro che, dovendo portare a casa la pagnotta, sono purtroppo costretti ad offrirlo. Resto tuttavia convinto che non si può licenziare la conversazione e la sfida che il modello advertorial pone con una scrollata di spalle, dall’alto di una incorruttibilità morale più supposta che riconosciuta.
Spero qui di dare il via a una conversazione, stimolando il dibattito sulle migliori pratiche di integrazione fra
- contenuto editoriale
- marketing e visione commerciale
- sviluppo, progettazione e design
++ A voi la palla ++
UPDATE @gillafiume mi segnala questo articolo di Mashable
Call it what you want — content marketing, native advertising, brand publishing – but the idea that advertisers can create editorial content has gained an amazing amount of momentum over the past two years.
The Onion and Gawker are but two examples on a laundry list of new media companies that have realized the earning potential of the agency model.
John McCarus, SVP and practice lead of brand content at Digitas, described companies likeVice as “an agency solutions company cloaked in a media model.” BuzzFeed employs an in-house editorial team of over a dozen people dedicated solely to creating content for its advertisers. Even The Atlantic – at 156 years young, hardly an example of a new media johnny-come-lately – has created Atlantic Media Strategies, an internal team dedicated solely to creating agency solutions for brands.
One thing is certain: Editorial expertise matters, and publishers have it in their DNA. Ad agencies maintain expertise in a lot of important fields that publishers can’t match, but communicating with customers in a trusted manner is not one of them.
The question is whether these agencies and ads – with their roots in journalism but their fealty to brands – will be able to coexist inside a traditional publisher, without polluting its editorial credibility. As blogger Andrew Sullivan pointed out, “[…] if advertorials become effectively indistinguishable from editorial, aren’t we in danger of destroying the village in order to save it?”
@gianlucamezzo aggiunge questo link alla discussione, e questo – che è esattamente ciò di cui stavamo parlando.
As a colleague of mine quipped, “No one’s content with the ship sinking, they want to burn each other alive as it does.” […] Our goal is clear: to build a sustainable model for advertising-supported journalism. That brings me to our 1,000 contributors, a curated network of entrepreneurial journalists, authors, academics, topic experts and other knowledgeable content creators. All are building individual brands and communities around their name. Here’s how it’s working for them, paychecks and all…. Read here.